Focus

Scenari di mercato

Alla ripresa servono nervi d’acciaio

di Giovanna Visco

L’industria manifatturiera di riferimento dei porti italiani, che assieme a edilizia e agricoltura, anima il rilancio economico del paese, sta affrontando sfide difficili. A pandemia e cambiamento climatico, con il loro portato di interruzioni e ritardi lungo le catene dei rifornimenti ed esorbitanti rincari dei noli marittimi, si aggiungono i dazi sulle importazioni di prodotti intermedi e materie prime, varati dalla UE prima dell’avvento pandemico.

L’insieme di tale contesto mette in ginocchio produzioni di scarso valore aggiunto, nonostante la crescita della domanda, mentre altre si riorganizzano repentinamente. Si sta gettando alle ortiche il fiore all’occhiello che per anni ha dominato la globalizzazione, il just in time, sostituendolo con strategie focalizzate su scorte, magazzini e, a più lungo termine, regionalizzazione, per gestire quotidianità difficili e imprevedibili. In una fase di forte esigenza sociale di ripresa economica, questi scompensi inevitabilmente si ripercuotono sui prezzi dei prodotti, semilavorati e finiti, restringendo il campo dei consumi e decelerando il traino della domanda.

In una fase di forte esigenza sociale di ripresa economica, gli scompensi generati da un insieme di fattori (pandemia, cambiamento climatico, interruzioni e ritardi lungo la catena dei rifornimenti) si stanno ripercuotendo sui prezzi dei prodotti, semilavorati e finiti, restringendo il campo dei consumi e decelerando il traino della domanda.

Soli pochi giorni fa, ancora una volta Confetra nel corso di un convegno del Propeller Club di Trieste denunciava per voce di Stefano Visentin, presidente di Confetra FVG, il prezzo vertiginoso delle materie prime, che non ha risparmiato nemmeno un materiale “povero” come il legname, il cui prezzo è più che raddoppiato per il forte accaparramento degli Stati Uniti.

A spiccare tra le preoccupazioni principali di Confetra è l’acciaio, da cui dipendono produzioni strategiche e il settore che più di ogni altro funge da moltiplicatore dell’economia reale, l’edilizia. Stretto fra rincari, penuria e rallentamenti produttivi per contenere costi energetici ed emissioni, i dazi aggiungono la goccia che fa traboccare il vaso.

A queste condizioni, alcune aziende di trasformazione dell’acciaio si sono fermate per l’insostenibilità dei costi aggiuntivi dei dazi, lasciando giacere nei porti tonnellate di metallo pronto per essere lavorato, in attesa della ripartenza delle quote consentite all’importazione in esenzione, con l’arrivo di un nuovo trimestre. Una scelta obbligata, che costringe a pagare le soste a terminal e depositi, congestiona gli spazi nei porti di sbarco e rallenta, se non procrastina, le produzioni a danno dei clienti.

L’inizio di ogni nuovo trimestre vede un rapido sdoganamento di tonnellate di bramme e coil, esaurendo in poche settimane il limite massimo in esenzione, come già accaduto la scorsa estate. A settembre, da stime effettuate, nei porti di Ravenna e Marghera giacevano complessivamente circa mezzo milione di tonnellate di acciaio eccedenti la quota di salvaguardia. Il record, invece, è stato raggiunto da un tipo di acciaio inox proveniente dall’India, che come riporta l’HuffPost, ha esaurito la sua quota di salvaguardia già il primo giorno del nuovo trimestre luglio-settembre.

Lo scenario che 3 anni fa aveva spinto l’Unione Europea a fissare limiti al libero scambio per 26 tipologie di acciaio, con tariffe differenti a seconda dei Paesi di provenienza per proteggere la siderurgia comunitaria dal dumping soprattutto asiatico, oggi è completamente cambiato. Ciononostante, a giugno scorso, la Commissione europea ha deciso di rinnovare per un altro triennio le barriere doganali sull’acciaio, rinnovando una rigidità che si sta rivelando molto controproducente, per l’inarrestabile insieme di volatilità, tensione e stress che sta attraversando tutto il sistema globale dell’acciaio e delle altre materie prime, sotto la pressione dello sblocco contemporaneo delle attività produttive dopo il lungo fermo Covid-19 e il boom della domanda, sollecitata dai finanziamenti Next Generation necessari alla ripresa.

Tra novembre 2020 e luglio 2021, come riporta l’HuffPost che ha ascoltato più operatori, il prezzo del pvc è rincarato del 73%, quello del rame 38%, del legname conifero 76% e del polietilene oltre il 100%. Ma più alti ancora sono stati i rincari dell’alluminio, che lo scorso ano è più che triplicato, arrivando a 1.900 dollari a tonnellata, e dell’acciaio, letteralmente schizzato: il tondo per il cemento armato è aumentato di oltre il 240%, l’inox è arrivato a 4.000 euro per tonnellata, il laminato a caldo 2.000 euro per tonnellata, con gravi ripercussioni dirette sul settore edilizio, soprattutto sulle imprese che hanno presentato preventivi sulla base di prezzi inferiori.

Che l’acciaio sia una merce strategica e vitale è stato “ratificato” anche dal recente accordo tra Stati Uniti e Unione Europea, che allenta la guerra dei dazi inaugurata nel 2018 da Donald Trump per proteggere i produttori domestici di alcuni Stati grandi elettori e colpire l’economia cinese, che detiene più della metà della produzione mondiale. Riguardo la merce di provenienza UE, l’ex presidente statunitense aveva imposto dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, a cui la Commissione europea aveva reagito alzando barriere doganali su alcuni prodotti USA, come motociclette Harley Davidson, jeans Levi Strauss, whisky bourbon e burro di arachidi, causando in poco tempo un calo dell’export Usa in Ue di 2,8 miliardi di euro.

Ma sotto gli effetti combinati di pandemia e cambiamento climatico, un tale testa a testa ha imposto di correre ai ripari, portando nel giro di pochi mesi alla conclusione del negoziato, che non elimina i dazi, ma li restringe. L’accordo, che sarà attivo dal 1° gennaio 2022, rimuoverà tra le due sponde dazi per oltre 10 miliardi di dollari all’anno, mantenendo le 232 tariffe Usa sulle importazioni dalla UE. Nel caso specifico dell’acciaio, la quota di esenzione per 54 categorie di prodotti siderurgici UE è stata innalzata a 3,3 milioni di tonnellate trimestrali, amministrate in base all’ordine di arrivo e contingentate a seconda dello Stato di provenienza, in base ai volumi 2015-17. La quota sarà aggiornata annualmente, prendendo come riferimento base i livelli della domanda 2021, mentre sarà consentito il trasferimento a quello successivo del 4% di eventuali quote trimestrali inutilizzate.

Questo accordo dà ossigeno soprattutto ai produttori olandesi e tedeschi, che nel 2015 hanno coperto oltre il 73% delle spedizioni europee di coil laminati a caldo negli Stati Uniti, e nel triennio 2017-20 oltre il 63%. Complessivamente, nel 2015-2018 gli Stati Uniti hanno acquistato coil e laminati dell’Ue alla media annua di 1,2 milioni tonnellate.

Condizione centrale delle nuove barriere doganali è la regola concordata che l’acciaio diretto negli Stati Uniti sia prodotto interamente in Europa, escludendo la lavorazione di qualsiasi semilavorato importato, per impedire che il metallo industriale soprattutto proveniente dalla Cina, venga riesportato senza dazi negli Stati Uniti.

Tuttavia, tale condizione costituisce uno scoglio per i laminatoi che normalmente utilizzano bramme provenienti dalla Cina e da altri paesi extra Ue, addensando nubi sul sistema di approvvigionamento domestico della siderurgia europea.

Intanto, la produzione cinese di acciaio grezzo da diversi mesi è in discesa, con una produzione giornaliera che a settembre scorso ha toccato il livello più basso da dicembre 2018. Le cause sono il razionamento dell’energia scattato 3 mesi fa e il limite produttivo fissato dal Governo entro la soglia raggiunta nel 2020, che raggiunse 1.065. miliardi di mt.

Per allinearsi all’obiettivo 2021 di crescita zero del paese, le acciaierie cinesi nell’ultimo trimestre di questo anno dovranno produrre meno di quello 2020. Uno scenario che ha fatto tracollare lo scorso 2 novembre il prezzo dell’acciaio sul mercato borsistico cinese. A giocare sfavorevolmente anche le aspettative meteo di forte freddo per il cambiamento climatico durante l’inverno imminente, che alzano la pressione della crisi energetica nel paese.

In almeno 20 province cinesi l’erogazione di elettricità è già abbastanza ridotta, per il razionamento che consente il mantenimento del mercato calmierato, collegato al power crunch (difficoltà di produzione e commercio energetico) che sta investendo tutto il mondo. Questo fatto peserà sulla industria siderurgica cinese, già tradizionalmente rallentata nei mesi invernali. A questo si aggiungono anche gli sforzi del governo per ottenere un cielo blu durante le prossime Olimpiadi invernali di Pechino (4 -20 febbraio 2022), città tra le più inquinate della Cina. Una replica di quanto già fatto per quelle del 2008, che causò un rallentamento dell’economia globale, contestualmente alla drammatica crisi finanziaria scoppiata nel 2007 con i subprime statunitensi. L’insieme di tanti e tali fattori, introduce timori sulla possibilità che la domanda cinese di acciaio in calo possa superare il livello di produzione già ridotta, determinando ulteriore discesa del prezzo.

Secondo China Iron and Steel Association (CISA), la crisi energetica sta determinando tagli e interruzioni di produzione nelle acciaierie, con significativi aumenti di costi che pesano sulla redditività delle aziende, soprattutto per i forni ad arco elettrico, che consumano il doppio dell’elettricità per produrre una tonnellata di acciaio rispetto agli altiforni. Questi forni, che già registrano il calo del tasso di utilizzo della loro capacità, ora temono un possibile cambiamento futuro della politica energetica cinese, che aumenti le tariffe elettriche. Secondo CISA, in questo contesto alle aziende con non resta altro che realizzare prodotti ad alto valore aggiunto, come acciaio speciale e acciaio inossidabile, per trasferire i costi crescenti su prezzi di vendita più alti.

Ed è proprio sui forni elettrici ad arco, che utilizzano come materia prima il rottame, che il governo cinese sta puntando, con l’obiettivo entro il 2025 di portarli al 15-20% della produzione di acciaio totale, dal 10% attuale. Una via per ridurre le emissioni, tenendo conto dell’elettricità verde, e per abbassare la dipendenza dalle importazioni di minerale di ferro.

Come riporta Reuters, al momento le acciaierie cinesi si aspettano che l’impatto dei limiti di potenza sui mulini migliorerà il prossimo anno, mentre Pechino intensifica gli sforzi per aumentare la produzione di carbone per garantire l’elettricità.

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