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Focus

Ferrovie della Seta

Dalla parte sbagliata del cannocchiale

di Oliviero Baccelli

Vice direttore del Centro di Economia Regionale, Trasporti e Turismo dell’Università Commerciale L. Bocconi

Il più rilevante progetto di natura geopolitica del XXI secolo su scala euroasiatica è stato presentato il 17 settembre del 2013 dal presidente cinese Xi Jinping, in occasione della visita all’Università Nazarbayev di Astana, in Kazakhstan, la principale nazione frutto della frammentazione dell’ex Unione Sovietica, situata strategicamente a metà della distanza che separa i grandi centri economici della Cina e dell’Europa.

In quell’occasione venne annunciata per la prima volta la volontà di costruire la “zona economica della nuova Via della Seta”. Successivamente, il 3 ottobre dello stesso anno, Xi Jinping propose di accompagnare la politica di cooperazione economica e di intensificazione degli scambi commerciali con una strategia di rafforzamento degli assi infrastrutturali a supporto della crescita dei legami economici, nota come la “Via della Seta Marittima del XXI secolo”.

I due progetti andarono a costituire la One Belt One Road Initiative, un’iniziativa di lungo periodo rivolta ad approssimativamente sessanta paesi e a cinque miliardi di persone e definita strategicamente sin dall’inizio aperta, inclusiva e incentrata sulla cooperazione e la crescita economica della zona euroasiatica.

Il programma è molto articolato, comprende investimenti di natura ferroviaria, portuale, interportuale e di supporto alla semplificazione degli attraversamenti transfrontalieri, supporta le imprese di trasporto attraverso sussidi ad hoc, e ha anche rilevanti ricadute per le politiche di coesione sociale della Cina.

Fra gli obiettivi di ampio respiro del programma vi è in effetti anche quello di riequilibrare la situazione dello sviluppo economico territoriale del Paese della Grande Muraglia, che attualmente appare fortemente sbilanciata a vantaggio delle regioni costiere, mentre le aree interne, in particolare quelle al confine con la Russia e con la Mongolia, hanno sofferto di fenomeni di spopolamento e arretratezza economica.

In questo nuovo contesto programmatico – nei cui piani pluriennali si stabiliscono come obiettivi prioritari il mantenimento di un tasso di crescita del PIL pro-capite al 6,5% annuo e il raddoppio del PIL entro il 2020 – il ruolo delle reti ferroviarie a supporto degli interscambi internazionali diventa sempre più rilevante.

Per tutte le grandi aree metropolitane delle aree costiere cinesi, dove il PIL pro-capite è cinque volte superiore a quello delle aree interne e dove si è concentrato il grande sviluppo urbano e industriale degli ultimi trenta anni, il ruolo del trasporto marittimo per le relazioni commerciali da e per l’Europa rimarrà insostituibile.

La standardizzazione dei processi, l’intensificazione delle economie di scala e la semplificazione delle procedure rendono estremamente più economico l’utilizzo di questa modalità rispetto ad alternative terrestri. Dal punto di vista geopolitico tutto questo è ben noto ed è accompagnato da numerose iniziative nell’ambito della Belt and Road Initiative, fra cui il sostegno allo sviluppo delle acquisizioni di sistemi portuali (ad esempio al Pireo, a Colombo o anche la quota del nuovo terminal di Vado Ligure), ma costringe alla dipendenza totale dal passaggio dal Canale di Suez e dallo Stretto della Malacca, giudicato elemento di potenziale fragilità strategica e fattore di spinta alla diversificazione delle opzioni anche per queste origini/destinazioni attraverso lo sviluppo di collegamenti ferroviari euroasiatici.

In sintesi, le strategie di sviluppo delle regolari connessioni ferroviarie fra Europa ed Asia, promosse dal governo cinese nel corso degli ultimi anni attraverso sovvenzioni in grado di coprire quasi il 50% dei costi operativi, sono giustificate da una visione di lungo periodo con obiettivi di inserimento dei territori interni della Cina e delle Repubbliche ex-sovietiche asiatiche negli interscambi mondiali e come elemento di resilienza rispetto a possibili rischi sulle vie marittime.

In questo contesto il sistema italiano ha attualmente un ruolo del tutto marginale, per fattori di costo e di volumi. Infatti, da e per l’Italia l’alternativa marittima è più competitiva rispetto ad altri contesti del Nord Europa dove le tempistiche del trasporto ferroviario possono essere un elemento di interesse, favorendo in diversi casi (come nel caso delle relazioni commerciali tra la Polonia e la Cina) il dimezzamento dei tempi di percorrenza medi. Inoltre, la lunghezza dei moduli ferroviari ammessi sulle linee transalpine è ancora limitata, non essendo efficiente quanto la rete ferroviaria con standard europei.

Considerazioni di carattere strategico nazionale dovrebbero portare a sostenere che è prematuro occuparsi di queste connessioni di lunghissima distanza, che implicano trasporti ancora molto costosi rispetto a quelli via mare, con scartamenti ferroviari differenti e con costi procedurali elevatissimi ad ogni frontiera. Ma non è così: gli interventi infrastrutturali in corso su tutte le direttrici transalpine permetteranno un graduale salto di qualità delle connessioni ferroviarie verso l’Europa e, stante i forti tassi di crescita di tutte le aree euroasiatiche dalla Russia al Kazhakistan, oltreché della Cina, la diversificazione dell’offerta dei servizi di trasporto in grado di includere anche la ferrovia, sarà un obbligo.

Farsi trovare con un sistema di operatori, composto da imprese ferroviarie, nodi intermodali e spedizionieri, impreparato a gestire queste sfide sarebbe un errore notevole, come impugnare un cannocchiale dalla parte sbagliata.

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