Fortezza Vecchia di Livorno - Mastio visto da Torre quadrata
Foto di Mario Bellagotti - © AdsP Mar Tirreno Settentrionale
Memorie

Pessimo affare

Quando i genovesi svendettero Livorno in cambio di Sarzana

di Jean Baptiste Labat

Brano tratto da “Voyages du P. Labat de l’ordre des FF. Precheurs en Espagne et en Italie” (Amsterdam, 1731)

1706

Livorno è una città completamente nuova, a tal punto che la vecchiaia non ha ancora impresso la minima riga sulla fronte dei suoi edifici. Apparteneva prima ai genovesi. Cosimo I Granduca di Toscana la ebbe da loro in cambio di Sarzana, che gli cedette. Ognuno trovò il suo vantaggio in questo scambio quando venne fatto. Oggi non è più la stessa cosa. I genovesi se ne sono accorti e se ne pentono, ma è troppo tardi ormai.

Livorno un tempo non era che poca cosa; diciamo meglio che non era niente, al massimo un brutto villaggio in mezzo a una palude infetta e puteolente, che senza l’intervento dei Medici e dei loro seguaci uccideva tanta gente quanta se ne trovava abbastanza folle da venirci a trascorrere qualche periodo di tempo.

Tale scambio non venne eseguito solo in vista d’avere questa città episcopale abbastanza considerevole e che gli dette un accesso alla regione: egli conosceva anche la buona posizione del porto di Livorno e ciò che si sarebbe potuto fare, in seguito, per favorire nello Stato lo sviluppo del miglior commercio d’Italia e questa fu la vera ragione che lo spinse a fare uno scambio di cui tutto il vantaggio sembrava essere dalla parte dei genovesi.

Egli iniziò ben presto quello che i suoi successori hanno poi terminato. Mi riferisco alla cinta muraria della notevole città e a un doppio molo con un rientro lungo più di un miglio e mezzo, che racchiude due porti. La parte esterna è molto grande e fatta quasi a forma di quadrato. La parte interna chiamata Darsena è chiusa con una catena attaccata da una parte a una fortificazione triangolare, di cui due bastioni sono rivolti verso il mare, il grande porto e la rada e il terzo guarda la città. L’altra parte è attaccata all’estremità del molo interno, vicino a un corpo di guardia fortificato da buone barriere doppie, vicino al quale si trova l’ufficio di Sanità e quello della Dogana.

In questa Darsena ci sono le galee dello Stato. Normalmente il Granduca ne mantiene quattro e talvolta cinque. Sono i Cavalieri di Santo Stefano a salirci e a farci le spedizioni e hanno compiuto con esse belle azioni, che si vedono raffigurate a Pisa nella loro residenza conventuale e nella loro chiesa, con gli stendardi che hanno conquistato agli infedeli. […]

Questa Darsena è più lunga che larga e poiché sarebbe scomodo farne il giro per raggiungere la porta della città, è stata tagliata con una doppia diga di cui l’entrata ha la larghezza necessaria per lasciar passare una galea, con i remi alzati, e c’è su questo passaggio un pontone che va da una parte all’altra per il vantaggio di quelli che vogliono passare.

Si vede vicino al pontone una fontana che sarebbe di gran sollievo per la marina se l’acqua fosse migliore ma a Livorno manca l’acqua buona e le persone agiate la fanno venire da Pisa, dove è eccellente. Ci si abitua tuttavia a quella del paese e, ammesso che la si beva solo dopo mangiato, non fa gran male. […]

Ho appena detto che il porto esterno, cioè quello che è racchiuso fra i tre rami del molo, era molto grande ma possiede un difetto al quale non è stato possibile fino ad ora trovare alcun rimedio. Esso è pieno, al centro, di bassifondi he non impediscono in verità il passaggio delle barche ma che farebbero arenare i vascelli, i quali rischierebbero di passarci sopra.

L’ormeggio sicuro per i vascelli e le galee che non entrano nella Darsena è situato dietro il ramo esterno del molo. L’acqua è qui profonda e il fondale limpido e ci sono sul molo piccole colonne e nel muro alcuni anelli di ferro per attraccare i navigli. Tutto è pavimentato di grandi pietre unite e ben cementate, i muri sono di mattoni con alcune catene di pietra da taglio. Sono mattoni fatti appositamente. Essi hanno dodici pollici di lunghezza e otto di larghezza e appena ce n’è qualcuno consumato gli imprenditori mostrano una cura meravigliosa nell’operare la sostituzione, dopo aver tagliato la pietra rovinata a colpi di scalpello e di mazza. Non ho mai visto mura e pavimentazioni curate meglio e si può anche andare a passeggio sui moli e nelle strade della città senza temere d’infangarsi.

La cinta muraria della città è composta da bastioni e da cortine con falsi sostegni e da aditi che attraversano il fossato, che è molto largo e sempre pieno d’acqua. I passaggi coperti sono molto belli e ben curati. La palizzate sono ben mantenute da un muro con sostegni in mattoni. C’è quasi ovunque un pre-fossato all’esterno degli spalti. I bastioni che sono rivolti verso la campagna hanno all’interno i cavalieri e sono muniti di cannoni.

La città ha solo due porte: quella della Marina che dà sulla Darsena e quella di terra che viene chiamata anche Reale. Questa è molto bella ed è fiancheggiata da una grande costruzione voltata dove sono collocati i corpi di guardia con ali adibite a caserme, ed è tutto molto pulito e assai ben curato.

Oltre alla fortezza triangolare, che è l’entrata della Darsena di cui ho già parlato, c’è una cittadella alla destra della porta di terra, composta da due bastioni molto regolari con una mezza luna e un fossato pieno d’acqua dalla parte della città. Si vede bene dalla disposizione che questa costruzione è destinata solo a fermare una sommossa degli abitanti, se ne capitasse qualcuna e per devastare la città a colpi di cannone e di bombe.

C’è anche, nella parte orientale del porto, un’altra specie di fortezza nella quale non sono potuto entrare. Mi sembra che la sua principale funzione sia quella di coprire il luogo dove si rinchiudono per quaranta giorni gli uomini e le merci, che provengono da paesi in cui si sospetta la diffusione della peste, al fine di aerarli e profumarli prima di immetterli in città. Questo lazzaretto è grande. Ci sono alloggi, corti e rimesse sotto le quali si dispongono le merci. Si tiene tutto con grande ordine e si fa rispettare una disciplina severa a quelli che vi sono rinchiusi, perché la salute dello Stato e di tutto il resto d’Europa dipende da questo. […]

Il porto di Livorno è franco e libero come tutta la città. Ognuno vi è il benvenuto. Sebbene ci sia solo l’esercizio pubblico della religione cattolica romana, non si dà la caccia a nessuno a tal merito, ammesso che ci si mantenga nei limiti del rispetto e non si insultino i nostri santi misteri né i loro ministri. Ogni sorta di confessione religiosa è tollerata e gode di una profonda tranquillità. I greci hanno una chiesa, dove compiono gli offici secondo il loro rito. Gli ebrei vi hanno una sinagoga e sebbene ci sia un tribunale d’inquisizione esso non si occupa che di ciò che riguarda i cattolici residenti nella città.

La franchigia del porto appare ancora in quei pochi diritti che il Granduca prende sulle merci che entrano nella città. Esse non vengono mai ispezionate: i diritti si prendono per balle o per botti, senza darsi pena per ciò che contengono. La balla paga due piastre per l’entrata, che sia di seta o di carta; sia che pesi cento livre o che ne pesi millecinquecento, il diritto è sempre lo stesso. I mercanti hanno cura d’andare a bordo e di fare solo una balla delle tre o quattro originarie. Esse vengono contate quando passano alla dogana, senza che siano pesate, senza stimare ciò che contengano e senza che sia effettuata nessuna di quelle visite inopportune che si vedono troppo negli altri posti. Si sa perfettamente quello che si deve pagare, lo si paga e si è lasciati andare. […]

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