Interventi

Contro la trappola della Via della Seta

L’Italia sfugga agli artigli del Dragone

di Giulio Terzi di Sant'Agata

Già Ministro degli Affari Esteri, Presidente del Global Committee for the Rule of Law

La Cina di Xi Jinping è il punto di arrivo di un sistema di potere centralizzato, assoluto, imperniato sul PCC. Quel sistema aveva origine nella Lunga Marcia della Rivoluzione Maoista di settanta anni or sono. Lo stesso sistema evolveva negli anni Sessanta in senso ancor più repressivo attraverso la Rivoluzione Culturale. Ed era ancora lo stesso sistema a, per così dire, rigenerarsi nel 1989, alimentandosi ancora una volta nel sangue; nella repressione di un movimento giovanile che invocava libertà e riforme, ma che veniva massacrato a piazza Tienanmen. Un bieco paradosso della storia, nel momento in cui le tirannidi comuniste erano spazzate via da altre parti del mondo.

La Cina di Xi Jinping rivendica orgogliosamente tutto il suo passato comunista e maoista come una legacy di valori e di principi politici da perseguire da proporre al mondo. Ecco perché oggi è così necessario affrontare con la massima decisione e con grande coesione, nazionale ed europea, la questione della “cinesizzazione” economica, politica, culturale del mondo attraverso le Vie della Seta e la “One Belt One Road Initiative”.

Porti lungo la Via della Seta e nuovi predoni

La “Via della Seta” – Maritime Silk Road (MSR) – comprende diverse rotte mantenendo un approccio assai flessibile nel processo decisionale circa la collocazione dei porti. Le rotte partono dalle province costiere orientali della Cina e si muovono attraverso i seguenti corridoi obiettivo: attraverso il Sud-est asiatico e il Pacifico, compresa l’America centrale e meridionale; verso l’Africa orientale (collegamento con l’Africa occidentale tramite ferrovia e strade, ma potenzialmente anche collegamento con i porti dell’Africa occidentale); attraverso il Golfo di Aden e il Mar Rosso e nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez; e attraverso il Mar Glaciale Artico verso la Russia (la cosiddetta Via della Seta polare). Il Regno Unito non è ancora incluso nella MSR.

Le località portuali vengono scelte nell’ottica di un più ampio sforzo strategico della Cina per reindirizzare le rotte marittime al fine di conquistare una posizione di forza nel trasporto marittimo internazionale e per incrementare il commercio attraverso i porti “containerizzati” costruiti e gestiti in Cina.

L’accresciuta proprietà di tali porti sta provocando un clima di inquietudine diffusa per questo dominio che si sta delineando e per le conseguenza che si riverseranno nel settore marittimo globale.  Come negli altri casi di acquisizioni di reti strategiche, questa “frenesia” per i progetti e le infrastrutture portuali ha il preciso obiettivo di influenzare la politica e i processi decisionali dei Paesi in cui Pechino investe, come testimoniato in quei Paesi che hanno ricevuto massicci investimenti, e contrastando con il fondamentale principio della sovranità degli Stati.

La grave opacità attorno alla MSR e le relative infrastrutture portuali impedisce qualsiasi equilibrata trattativa tra la Cina e i Paesi ospiti. I potenziali impatti ambientali e socioeconomici negativi dei progetti riguardanti la BRI vengono totalmente trascurati con gravi ripercussioni – che già alcuni Paesi interessati stanno sperimentando – sullo sviluppo sostenibile, sull’economia e sulla tenuta del tessuto sociale.

I porti commerciali MSR hanno il potenziale per un duplice uso civile/militare e potrebbero rappresentare i precursori di più basi militari e logistiche cinesi in futuro, con una combinazione di basi militari all’estero flessibili e più piccole, come una miriade di “ninfee”, e porti commerciali a scopo di sorveglianza. Tale prospettiva sta generando una montante preoccupazione a causa delle implicazioni in termini strategici che la cessione delle infrastrutture portuali globali procura: in periodi di tensione politica lasciare un accesso privilegiato per lo schieramento dell’Esercito Popolare di Liberazione non lascia immaginare un futuro sereno.

La Cina si dichiara tenace sostenitrice della libertà degli scambi: ma intendendola come libertà di invadere i mercati esteri e tenendo invece il proprio rigidamente controllato, protetto e – quando è utile – isolato.

Un esempio su tutti è quello che può essere definito “contratto-rapina” con la Repubblica Democratica del Congo: investimenti per strade, ferrovie, infrastrutture cinesi per 9mld $ in dieci anni (con lavoratori al 100% cinesi) e sfruttamento esclusivo delle miniere del Kowelezi con cessione alla Cina di 10 milioni di tonnellate  di rame e 500 mila tonnellate di cobalto. Si calcola che in un decennio, a fronte “investimento” cinese di  9 mld $, sarà assicurato a Pechino un ritorno di circa 50 mld $, e lo spossessamento di intere regioni del Congo.

Stesse operazioni sono in atto in Africa Subsahariana e in Corno d’Africa in cui vengono spopolati villaggi e distrutta l’economia locale tradizionale, sostituita la popolazione locale con comunità cinesi e alimentati in misura sempre più consistente enormi flussi di migranti verso l’Europa.

Pechino über alles?

La Cina pretende di investire per acquisire il pieno controllo di reti strategiche nell’energia, nei trasporti, nell’economia digitale in Europa e in America ma vieta gli investimenti stranieri nelle stesse reti in Cina. Pechino esige che Huawei entri nel nostro 5G (una dimensione che aumenta di mille volte la potenza di Internet) per dominare la gestione e il flusso dei nostri dati ma blinda rigorosamente tutto il cyberspazio cinese alle società e negli operativi delle telecomunicazioni europee e americane. Un quadro della situazione viene fornito da “Freedom House”, che nel rapporto annuale sullo stato della libertà di Internet “Freedom on the Net 2018” ha piazzato la Cina all’ultimo posto tra i 65 Paesi valutati.

Pechino pretende in ogni campo “diritti esclusivi” nel mondo e il Governo Conte più di ogni altro Governo europeo si precipita a darli. Pechino vuole diritti esclusivi per la sua  propaganda sui nostri media, previsti nel Memorandum of Understanding (MoU) irresponsabilmente sottoscritto lo scorso marzo dal nostro Governo su forte impulso del Movimento 5 Stelle.

Nella scuola, centinaia di Istituti Confucio invadono le migliori università occidentali. Pechino gestisce direttamente nei minimi dettagli i curricula degli insegnanti mentre la storia viene raccontata e insegnata attraverso il filtro del Partito Comunista Cinese. Il “principio di reciprocità”, principio fondamentale nelle relazioni internazionali dal tempo del Trattato di Vestfalia, è anatema per i cinesi. Per Xi Jinping è la “peculiarità” della Cina che deve essere, prima di ogni altra cosa, riconosciuta e osannata.

Pechino afferma orgogliosamente l’unicità e la superiorità del proprio modello politico, culturale, economico e lo impone a Paesi che sono in una fase di sviluppo economico meno avanzata della Cina. Afferma modelli, regole alternative alla nostra democrazia liberale, allo Stato di diritto, a quei principi di libertà ai quali in assoluto teniamo.

Xi Jinping lo ha ufficialmente dichiarato in un manifesto politico diffuso poco dopo il suo insediamento alla Presidenza, che demonizzava “i sette indicibili principi” da combattere perché si tratta di valori occidentali. Tra questi: la democrazia liberale, i diritti umani, la libertà dei media, il diritto alla critica. Un invito a riflettere seriamente sulla grave situazione in cui versa la libertà di espressione in Cina è il censimento operato dal “Comitato per la protezione dei giornalisti”: nel 2018 si contano almeno 47 casi di giornalisti imprigionati e non si fatica a credere che il numero sia molto, molto più alto.

Una tragica illusione

È ormai ampiamente ammesso da tutti, eccezion fatta per qualche “utile idiota” – o per i più numerosi personaggi che già si aspettano di trarre utili personali dalla dominazione politica, economica e culturale cinese – che l’ammissione della Cina all’OMC-WTO nel lontano 1999, sulla base di concessioni unilaterali dell’Occidente, era fondata su un’illusione e su un falso presupposto. E tutto dovrebbe indurre alla più profonda vergogna i propagandisti della vulgata di una “potenzialità” democratica della Cina di questi ultimi decenni.

Vent’anni fa vi era l’illusione che la crescita dell’economia avrebbe generato una parallela spinta verso l’apertura del sistema politico alla libertà e al rispetto dello Stato di Diritto. Come definire chi ha la sfacciataggine di sostenere ancora oggi questa vulgata dinanzi a fatti come: la rivoltante situazione dei diritti umani; i campi di concentramento ovunque nello Xinjang; la brutale negazione della libertà religiosa e del Cristianesimo (nonostante le concessioni unilaterali fatte dalla Santa Sede); la sparizione di migliaia di cittadini senza alcun processo; il ricorso abituale alla tortura e alla violenza da parte della polizia; la totale soppressione di qualsiasi libertà personale e politica in uno Stato orwelliano che criminalizza opinioni, pensieri, parentele, comportamenti e gli stessi sguardi, attraverso milioni di sofisticatissime telecamere e rilevatori dei comportamenti?!

A chi ancora si illude sulla Cina comunista potremmo suggerire alcuni esempi. Il presidente del “Religious Freedom Institute”, Thomas F. Farr, in un’audizione del novembre 2018 alla Commissione esecutiva sulla Cina del Congresso USA, ha descritto la soppressione della religione in Cina come “il più sistematico e brutale tentativo di controllare le comunità religiose cinesi dopo la Rivoluzione Culturale”.

La brutale oppressione religiosa e culturale dei tibetani in Cina è in corso da quasi 70 anni ma la Cina non ha solo cercato di distruggere la religione tibetana. Il cristianesimo, ad esempio, è stato sempre visto come una diretta minaccia per la Repubblica Popolare Cinese da quando fu istituita nel 1949. Il regime ha demolito chiese e rimosso croci. Sono state sostituite con la bandiera nazionale. Le effigi e immagini di Gesù sono state sostituite con quella del presidente Xi Jinping! Drammatica è anche la repressione degli Uiguri, musulmani nello Xinjang: 25 milioni di persone nella provincia occidentale della Cina dello Xinjang e di cui tra 1 e 3 milioni sono oggi rinchiusi nei campi di internamento per “rieducazione politica”. E i loro figli, come rivelato da un recente terribile documentario della CNN, reclusi in altri “campi-scuola”, di fatto prigioni circondate da altissimi muri dai quali decine di migliaia di bambini e ragazzi, strappati alle famiglie, non possono più uscire.

Cinesizzazione forzata

Nel 1999, quando si fece l’errore di ammettere senza alcuna condizionale la Cina nel WTO, ci si basò su un altro presupposto rivelatosi, anche questo, del tutto falso. Si riteneva che la crescita delle esportazioni cinesi verso l’Occidente sarebbe stata riequilibrata dallo sviluppo di una gigantesca domanda interna, a beneficio delle esportazioni e degli investimenti occidentali. L’enorme ricchezza accumulata dalla Cina attraverso un immenso e crescente attivo commerciale, unito all’altrettanto immenso deficit USA e UE verso la Cina hanno dimostrato invece da anni la gravità dell’errore.

La conflittualità che tutto questo determina non è risolvibile certamente nel breve o nel medio periodo. Quella della “cinesizzazione” è questione che va affrontata con la massima urgenza e che non può più essere ridimensionata – e tanto meno elusa – né su scala italiana e europea né su quella mondiale.

La pressione di Pechino si concentra sempre più sull’Europa, in particolare su quello che Xi Jinping ritiene essere l’anello debole dell’ancoraggio europeo: sull’Italia. Il nostro Paese rappresenta in Europa il boccone più grosso per il Dragone cinese, che ha già divorato e digerito le sue prede in Grecia (con il Porto del Pireo) e in Portogallo (con l’acquisto a condizioni stracciate, nel post crisi 2012, della rete elettrica portoghese che ha importanti diramazioni nelle rinnovabili in Europa).

Saremo il prossimo boccone?

Il Dragone ha piantato da tempo le sue grosse zampe in alcune imprese strategiche italiane. Ma il vero problema è ora il salto in avanti che, con volontà incredibilmente suicida, il Governo Conte ha incoraggiato il regime cinese a fare in l’Italia, sottoscrivendo il famoso Memorandum of Understanding (MoU), un assai impegnativo documento politico, con la superpotenza cinese.

Il Governo Conte ha “venduto” al pubblico la sciocchezza che non era poi un documento importante trattandosi “soltanto” di un documento politico senza una chiara natura giuridica e che il MoU non era un Trattato ratificato dal Parlamento, cosa che peraltro avrebbe portato dritta dritta l’Italia dinanzi alla Corte di Giustizia per violazione dei Trattati Europei e delle competenze commerciali esclusive della Commissione.

Il Governo Conte si è mosso quasi interamente su impulso e volontà del Movimento 5 Stelle  e ha assunto impegni politici in modo irresponsabile. Non si siglano impegni – tanto meno con una superpotenza assertiva come la Cina di oggi, neo-imperiale, impegnata allo spasimo a promuovere principi e regole in netta contrapposizione con quelli europei e atlantici – e ancor meno si sottoscrivono questi tipi di impegni se sono “solo” politici.

Ve lo immaginate il momento in cui dovessimo cercare di uscire dalla gabbia nella quale ci siamo rinchiusi con il Dragone cinese, ad esempio nella collaborazione nei programmi di Satelliti cinesi BaiDou o Yeasong, che hanno natura anche militare e appartengono alle Forze Armate e all’Intelligence cinese? O il momento in cui non potessimo onorare, senza cambiare alleanze, la nostra promessa “solo politica” di conformarci agli obiettivi di Pechino ad esempio, nell’occupazione e militarizzazione del Mar della Cina o su Taiwan od Hong Kong?

Se solo accennassimo a farlo, verremmo immediatamente castigati, con estrema durezza. attraverso ritorsioni economiche, come è toccato a molti Paesi (Canada, Corea del Sud, Filippine, e altri) che negli ultimi anni, pur avendo sul proprio territorio investimenti cinesi, si sono permessi di dissentire e criticare i misfatti di Pechino al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu o in Consiglio di Sicurezza e nell’Assemblea Generale dell’ONU. Paesi che a differenza nostra  si erano ben guardati dal firmare col Dragone demenziali Memorandum.

Viene da sorridere quando si sente la tesi dell’impegno “solo politico” di un Paese come il nostro, con popolazione pari al 4% di quella cinese, un PIL pari a 1/8 della Cina, un bilancio Difesa e Forze Armate complessivamente inferiore di un 1/20 di quelli di una Cina Potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sempre più protagonista in tutte le Organizzazioni Internazionali indiscusso, poco contestata da un’America sempre meno multilateralista.

Di cosa parla il Governo Conte, quando pensa di ridimensionare l’atroce errore fatto firmando quel MoU “solo politico”? Fatto di impegni di vastissima portata, assunti da uno gnomo con un gigante che non è certo meno scaltro, spietato, esigente e attento dell’improvvido gnomo entrato tutto contento nella gabbia.

Giravolte a 5 Stelle

Discettare sul come ciò sia potuto avvenire è forse superfluo, come spesso accade quando si cerca di trovare un filo di razionalità nella linea del M5S intrisa di stereotipi, ideologismi e carenza di informazione oggettiva. Nel mondo occidentale questo Movimento può vantare il primato di essere l’unica importante forza parlamentare che appare attratta più di ogni altra, irresistibilmente attratta, da tutto ciò che nel mondo continua a odorare di “comunismo”.

La Cina rappresenta un'”attrazione fatale” per l’establishment grillino cosi come lo sono – nelle loro sventurate realtà – il Venezuela di Maduro, la Cuba Castrista e i paesi del gruppo Alba in America Latina. Eppure anche sulla Cina il Movimento fondato da Beppe Grillo di sfacciate piroette ne ha fatte diverse, ignorando (per quali interessi?) i gravi danni che tutto questo procura al Paese.

In un post dei parlamentari grillini del luglio 2014 sull’ingresso cinese in Terna, si leggeva: «Quando si parla di sovranità, si parla anche degli asset strategici più delicati e delle attività chiave di un Paese». Poi si continuava attaccando direttamente Pechino: «Eppure stavolta la cosa è quanto mai scandalosa: non solo si svende una parte di un asset strategico energetico, non solo tale asset è in attivo e porta denaro nelle casse del Paese, ma sapete a chi lo si svende? Ai cinesi». Dicevano anche: «Il governo si è convinto che serve anche un socio forte, forse perché tanta sovranità rimane davvero troppo indigesta». E attaccavano il ministro Pier Carlo Padoan colpevole di essere «andato in pellegrinaggio a Pechino per chiudere l’accordo con i cinesi di State Grid Corporation of China». Quindi Padoan andava in “pellegrinaggio”, mentre Luigi Di Maio no.

C’era anche dell’altro. «Governi stranieri sulla rete elettrica italiana, sulle informazioni che su essa viaggiano, e anche sui dati sensibili della clientela, che riguardano tutta la comunità nazionale. Normale amministrazione: il Paese e i suoi abitanti hanno da tempo perso ogni valore, mentre le loro ricche proprietà vengono svendute a destra e a manca». Così, prima di andare al governo. Insomma, i grillini facevano esattamente lo stesso discorso fatto oggi da chi si oppone a Huawei in Italia per la rete 5G. Stando al Governo, forse adesso per loro conta più il “lucro emergente” che non la sicurezza e la sovranità nazionale.

Rule of Law alla “cantonese”

Lo scontro in atto – volutamente tenuto fuori dai riflettori mediatici, anche in Italia come sappiamo bene – non è soltanto economico. È uno scontro per l’egemonia politica e dei valori su scala mondiale. Nei decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale, “aiutato” sicuramente dalla netta contrapposizione di valori che la Guerra Fredda ha fornito, l’Occidente è stato all’avanguardia nello sviluppo di strumenti internazionali a difesa dei valori universali dei diritti umani e dello stato di diritto, valori e strumenti senza i quali la democrazia non può vivere.

Negli ultimi anni, dopo l’errore sopramenzionato dell’entrata a pieno titolo della Cina all’OMC nella speranza che maggiore apertura economica e maggior benessere avrebbe portato ad una democratizzazione, non è stato l’Occidente che è riuscito a imporre la sua visione di un ordine mondiale, bensì l’erosione di quello stesso ordine da parte di Pechino e regimi affini.

La Cina non è mai stata leale a principi universali che aveva sottoscritto e negli ultimi anni assistiamo semmai a una sua sfacciata rivendicazione dei principi opposti. “I diritti umani con caratteristiche cinesi” e “lo Stato di diritto con caratteristiche cinesi” sono slogan ormai portati avanti con orgoglio all’interno delle Nazioni Unite. Anche il principio dell’obbedienza a Pechino dei funzionari cinesi nelle Istituzioni internazionali viene apertamente affermato e rivendicato, anche se viola il dovere “giurato” di questi stessi funzionari al momento del loro insediamento. Le denunce anonime di altri funzionari ONU sulle pressioni continue di Pechino sul loro operato sono innumerevoli.

Sono molto pochi i Governi che oggi reagiscono a queste prepotenze, mirate a riscrivere le più basilari regole universali che il mondo si è dato dal 1946 in poi. L’Italia è tra i primi Paesi a cedere. Ed è proprio per questa ragione che la cinesizzazione dovrebbe preoccuparci tanto: non soltanto per quel che accade lì ma per l’erosione dello stesso principio dello Stato di diritto.

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