Interviste

Colloquio con Mario Sommariva

La doppia anima dei porti italiani

di Giovanna Visco

Negli ultimi decenni i traffici commerciali sono cambiati radicalmente, guidati dalla globalizzazione delle supply chain, che hanno trovato nei porti e nel trasporto marittimo i principali pilastri logistici.

In Italia i porti sono stati oggetto di importanti riforme di adeguamento ai nuovi requisiti competitivi mediterranei e internazionali, per consolidarne un ruolo strategico entro i nuovi scenari geoeconomici e geopolitici.

L’emergere dei più recenti fenomeni come i processi di verticalizzazione, il cambiamento climatico e la pandemia, l’integrazione sempre più stretta con l’Unione Europea e i riequilibri all’interno dei processi di globalizzazione sollevano incessantemente nuovi confronti, dove tuttavia sovente è difficile distinguere l’interesse particolare da quello generale. Il futuro dei porti italiani dipende da quello che si mette in campo oggi, che non può essere frutto di decisioni fondate sulla propaganda, ma ha bisogno di visione, pensiero e riflessione critica.

Tra le voci più attente della portualità italiana odierna, quella di Mario Sommariva, attualmente Presidente della Autorità dei Sistema del Mar Ligure Orientale, che comprende i porti di La Spezia e Marina di Carrara. In precedenza ha guidato per quasi 6 anni nel ruolo di Segretario generale la rinascita del porto di Trieste al fianco del Presidente Zeno D’Agostino, e prima ancora quella del porto di Bari negli 8 anni di presidenza Mariani, che hanno impresso uno slancio decisivo di modernizzazione e sviluppo che ha rilanciato le sorti del porto pugliese.

Dottor Sommariva, in base alla sua esperienza, nei porti è possibile conciliare flessibilità, compressione dei costi e lavoro?
La flessibilità è una componente strutturale del lavoro portuale. I traffici mantengono un’alta variabilità e quindi è necessaria un’organizzazione del lavoro flessibile. Non è casuale se da sempre il nodo centrale dell’organizzazione del lavoro in porto ruota sulle modalità con le quali si risponde al tema della variabilità dei traffici. Da qui l’esigenza dell’articolo 17 e di un soggetto che sappia coniugare il massimo di flessibilità, attraverso il lavoro a chiamata, con il massimo di sicurezza e di professionalità. Quindi direi che è possibile conciliare la flessibilità con l’efficienza, ma ciò non può significare compressione dei costi. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, come recita un vecchio proverbio.  Il lavoro flessibile e professionale deve essere giustamente retribuito.

Eppure a sentir certi discorsi sembrerebbe che il modello portuale di manodopera a chiamata sia giunto alla obsolescenza…
Il gigantismo navale aumenta la variabilità del lavoro. Stessa cosa si deve dire per la situazione contingente determinata dall’irregolarità dei viaggi determinata dagli effetti della pandemia. Da questo punto di vista il modello portuale mi pare tutt’altro che obsoleto.

In generale, i fattori di variabilità dei traffici aumentano e non diminuiscono. Cosa diversa si potrebbe dire per l’automazione che, peraltro, non si è ancora pienamente affermata nei terminal italiani. Da questo punto di vista occorreranno misure di “accompagnamento” formative e di tutela sociale per governare gli effetti del cambiamento. Da questo punto di vista saranno utilissime le norme sul Piano dell’organico del porto, che appunto servono a guidare ed accompagnare i cambiamenti tecnologici ed organizzativi.

Spesso nei convegni traspare la tendenza a voler stabilire un ordine di importanza tra le diverse Autorità di Sistema Portuale (AdSP). Secondo lei ha senso?
In un paese come l’Italia, i porti sono e saranno sempre numerosi per caratteristiche geografiche ed economiche. Molti porti di media dimensione sono essenziali per i sistemi produttivi locali e regionali. Occorre poi tenere presente l’insularità, che comporta una vasta gamma di collegamenti passeggeri, e la diffusione del traffico crocieristico, che ha necessità di diversificare le destinazioni. L’importanza e la gerarchia sono sempre abbastanza relativi. Detto questo, è chiaro che vi sono porti che, per dimensione e complessità di traffici e collegamenti, a partire da quelli ferroviari, hanno problemi organizzativi diversi e necessitano di soluzioni organizzative più articolate. Banalmente, non tutti i porti sono uguali. La legge 84/94 conteneva proprio quelle flessibilità applicative che consentivano di gestire le diversità. In generale, per rispondere alla complessità dei problemi occorre lasciare ai porti una maggiore autonomia.

Prospettare una governance pubblica dei porti ripartita tra più soggetti: Ministero/AdSP, Authority dei Trasporti e quella della Concorrenza, potrebbe rispondere alle esigenze di risposta alla complessità dei porti?
I soggetti citati hanno tutti competenze diverse e quindi possono coesistere facendo ciascuno ciò che è nelle loro competenze. La ripartizione dei poteri quindi già esiste. I pasticci nascono quando si pretende di ridimensionare i poteri delle AdSP e di ampliarne altri senza che vi siano, nei soggetti che dovrebbero operare in luogo delle Adsp, adeguate competenze professionali e capacità istruttorie. La concorrenza oggi soffre a causa di una politica europea che non ha esaminato con sufficiente attenzione il tema delle alleanze fra i vettori marittimi ed a causa dell’assenza di ogni limite all’integrazione verticale degli stessi. Questi sono i fattori che condizionano la concorrenza nel settore marittimo e portuale.  Pensare che, nell’assetto attuale del mercato, la maggiore concorrenza si garantisca attraverso l’obbligo di mantenere una banchina pubblica nei porti significa non conoscere i porti italiani e quello che è successo, in materia di terminal e di investimenti privati, negli ultimi trenta anni. Lo dice uno che, a Bari, anche a costo della propria salute, ha difeso a spada tratta le banchine pubbliche ma, come si dice con metafora efficace, non è possibile rimettere il dentifricio nel tubetto una volta uscito…

Un’ipotesi di privatizzazione dei porti, trasformandoli da enti a società per azioni, porterebbe effettivamente a una radicale sburocratizzazione e a maggiori libertà decisionali, come persino alcuni presidenti sostengono?
Chi pone questo problema pone un problema vero anche se propone una ricetta, a mio avviso, sbagliata. Credo che la risposta si trovi garantendo alle Adsp una maggiore autonomia organizzativa ed amministrativa dando un maggiore significato al concetto di “ordinamento speciale” che è presente nella riforma Delrio. Credo anche che si debbano allentare una serie di obblighi che derivano dall’applicazione della legge “Madia” e della disciplina del pubblico impiego, che non colgono la specialità delle Adsp. Come diceva Francesco Nerli, le Authority avrebbero dovuto conservare una doppia anima “rigorose come il pubblico e dinamiche come il privato”. Dopo molti anni passati nelle Autorità Portuali sono convinto che questa sia tuttora la ricetta giusta, che corrisponde alla peculiarità dei porti ed anche alle loro diverse caratteristiche dimensionali e di traffico. Le SpA complicherebbero molto la gestione del demanio e l’applicazione della disciplina sugli aiuti di Stato. Inoltre, a meno di discipline specifiche e particolarmente complesse sarebbero delle entità societarie “scalabili”. Uno scenario potenzialmente pericoloso.

Quanto pesano le divergenze sulle materie concorrenti, Titolo V, tra i sostenitori della SpA?
Il titolo V, dopo il fallimento della riforma costituzionale del 2016, rimase quello che è. I porti sono e restano nell’ambito dei poteri di legislazione concorrente. Al momento dunque una gestione totalmente centralizzata non sarebbe ammissibile sotto il profilo costituzionale. Le ipotetiche SpA dovrebbero certamente fare i conti con i poteri delle Regioni. Non riesco sinceramente ad immaginare in quale modo. L’unica via resta quella di una forte politica infrastrutturale nazionale che individui scelte e priorità ma sia, inevitabilmente, condivisa con le Regioni secondo l’attuale dettato costituzionale. Al momento non vi sono alternative.

Torna su