Focus

Ucraina, dei mercati e delle pene

La Guerra infiamma le materie prime

di Giovanna Visco

Il dirompere sulla scena internazionale delle onde lunghe della pandemia Sars Cov2 agitate violentemente dall’impennata del conflitto in Ucraina – oggetto a sua volta di un corto circuito informativo senza precedenti di natura propagandistica – sta disseminando in Europa pericolose radicalità degenerative. Il rischio di un conflitto allargato di tipo nucleare o in alternativa, di una guerra dissanguante sul modello siriano, è sulla soglia, alimentata da molti decisori europei, lontani da prassi diplomatiche di pace.

Nelle ultime settimane, il blocco degli approvvigionamenti provenienti da Russia e Ucraina, accompagnato dalla veloce ascesa dei prezzi nelle Borse mondiali e dall’assottigliamento delle scorte, restituisce un panorama internazionale caotico, difficile da pronosticare, mentre le prime imprese manifatturiere europee già riducono o sospendono le produzioni per mancanza di materiali o per rincari non assorbili dal mercato.

A pesare è la scelta maturata in ambito Nato – organizzazione politico-militare tra più Stati europei e gli Stati Uniti e da questi guidata, sorta nel 1949 da un accordo di 12 paesi, attualmente allargata a 30 (ultimo ingresso la Macedonia del Nord nel 2020) – di aprire un fronte di guerra contro la Federazione Russa mediante l’imposizione di gravi sanzioni, proseguendo il percorso già intrapreso nel 2014, dopo il passaggio della Crimea alla Federazione Russa.

L’interdipendenza economica globale finanziariamente caratterizzata dal dollaro sta mostrando le sue capacità di offesa politico-militare, allarmando molti paesi che hanno scelto posizioni indipendenti e percorsi autonomi pacifici di inclusione della Russia, tra cui Cina, India, Serbia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Angola, Algeria, Iraq, Kazakistan. Anche tra i paesi Nato il fronte non è compatto, con la Turchia che ha deciso di non partecipare alle sanzioni occidentali contro la Russia, aprendo un ponte importante di dialogo russo-ucraino, mentre l’Ungheria si è rifiutata di inviare armi all’Ucraina e la Germania ha respinto le richieste statunitensi di sanzionare le forniture energetiche.

Il conflitto affonda le sue radici nel campo delle grandi potenze, Stati Uniti, Russia e Cina, dove la sicurezza geopolitica e l’egemonia economica si confondono, spinte da una politica estera statunitense puntata a garantire il proprio predominio assoluto nelle sfere di influenza. La portata dello scontro in Ucraina è divenuta subito mondiale, per il coinvolgimento delle principali catene di rifornimento di materie prime strategiche, che negli anni hanno attratto ingenti capitali esteri e strutturato le enormi fortune capitalistiche degli oligarchi russi e ucraini (oligarca è chi ha rilevato, con vari espedienti e spesso con appoggi esterni, le principali attività e le grandi aziende statali nell’ex Unione Sovietica).

Circa il 30% del commercio mondiale di grano proviene dalla Federazione Russa, 1° esportatore mondiale con il 17% del commercio internazionale, e dalla Ucraina, 3° esportatore a quota circa 12%, che nel 2021 ha aumentato del 32% la sua produzione di grano, passata a 85,7 milioni di tonnellate. Il paese è anche 1° produttore di semi di girasole, di cui detiene il 30% della esportazione mondiale, e 4° produttore di mais, con quota 17%.

Come annunciato dalla Autorità Marittima, per tutta la durata del conflitto i porti ucraini resteranno chiusi, con grave danno dei traffici commerciali ma con effetti lunghi, secondo alcuni osservatori, per la resistenza degli armatori a riprendere i collegamenti, avvalorata da notizie di aree marittime ucraine minate contro la marina russa, che aumentano la riluttanza delle compagnie assicurative a coprire i rischi delle spedizioni. In alternativa, le ferrovie statali ucraine sarebbero pronte a organizzare l’export agricolo su rotaia, portando i carichi ai confini con Romania, Ungheria, Slovacchia e Polonia.

Ma intanto il raccolto 2022 di grano invernale già potrebbe essere compromesso per le interruzioni e gli esodi della popolazione in fuga, così come la semina primaverile , mentre il 25% di 24 milioni di tonn. di grano ancora non riesce a uscire dal paese, analogamente al 40% di 33,5 milioni di tonnellate mais, che ha tra i suoi clienti la Cina, che nel 2021 ha importato oltre 8 milioni di tonnellate di mais ucraino, pari al 30% del suo fabbisogno.

Intanto, il governo ucraino ha sospeso e limitato le licenze di esportazione di molti prodotti agricoli per garantire la sicurezza alimentare interna, come del resto ha fatto parzialmente anche la Federazione Russa, sospendendo temporaneamente l’export di grano e zucchero.

Dal canto suo, l’export russo sta risentendo degli effetti dell’espulsione di alcune banche della Federazione dal sistema internazionale interbancario Swift (sostanzialmente un sistema Iban che garantisce le identità dei soggetti delle transazioni), precludendo i finanziamenti commerciali, a cui si aggiungono i timori degli importatori di cadere nelle maglie ritorsive delle sanzioni.

Le reazioni dei mercati sono state veloci, e il prezzo del grano al CBOT (Chicago Board of Trade) è aumentato di oltre il 70%, superando pochi giorni fa 13 dollari al bushel (1 bushel equivale a 27,216 kg); il livello più alto dal 2008, seguito a ruota da altre commodity come il mais, il cui prezzo è salito del 30% e semi di soia aumentati di oltre il 25%.

Molte famiglie europee, invece, per timore dei forti rincari, stanno sistematicamente svuotando gli scaffali dei supermercati, mentre si addensano all’orizzonte nubi di rivolta sociale sui paesi per i quali il grano è la principale fonte di alimentazione, come quelli nordafricani che si affacciano sul Mediterraneo.

Intanto, si è aperta la caccia internazionale a nuovi fornitori, prospettando affari d’oro per altri paesi esportatori di grano, come l’Australia, al 6° posto della classifica mondiale. Da fonte Reuters, l’export di grano australiano quest’anno dovrebbe ascendere al record di oltre 25 milioni di tonnellate, nonostante la forte carenza di camion e autisti, che raffredda gli entusiasmi di una contingenza assai rara, segnata da alti prezzi di mercato e raccolti eccezionali per il secondo anno. Al momento l’export agricolo australiano sta affrontando tempi lunghi, ritardi e congestionamenti nei porti di imbarco, mentre a causa dello spostamento anticipato degli ordinativi asiatici dal Mar Nero, tutti gli slot di spedizione per i prossimi mesi sono già esauriti.

Il peso della Federazione Russa, che secondo gli osservatori deve ancora esportare il 28% del suo raccolto, aumenta considerando che è il 2° esportatore mondiale di semi di girasole a quota 27%, e il principale fornitore al mondo di fertilizzanti, come potassio, ammoniaca, urea e azoto, spostati via nave o treno. La sospensione temporanea dei servizi marittimi nei porti russi di grandi compagnie come Maersk e MSC e di grandi gruppi logistici, a seguito delle sanzioni, ha impedito le consegne a molti agricoltori, portando il Ministero Industria e Commercio russo a raccomandare la sospensione dell’export dei fertilizzanti fino alla normale ripresa dei servizi di trasporto dalla Russia. Un corto circuito che ha portato all’esplosione dei prezzi, come quello dell’ammoniaca anidra, necessaria alla coltivazione del mais, che ha raggiunto quasi 1.500 dollari alla tonnellata, e che ostacola l’espansione agricola di altri paesi produttori, tra cui gli Stati Uniti, che cavalcherebbero volentieri l’abbrivio della salita dei prezzi di cereali e soia, scambiati ai massimi pluriennali, se i fertilizzanti non fossero così costosi.

In generale, le perdite che si prospettano saranno ingenti, difficilmente recuperabili, tanto più che le alternative di mercato spingono verso riconversioni agricole che portano alla scarsità di altri prodotti spesso vitali per le popolazioni locali, all’aumento delle deforestazioni e a ulteriore inquinamento. Secondo diversi analisti, Il perdurare del conflitto e delle sanzioni non farà altro che restringere l’offerta, mantenendo prezzi agroalimentari troppo alti per milioni di persone.

Ma il teatro dello scontro sta condizionando pesantemente anche i rifornimenti strategici minerari e metalliferi. Le aziende russe coprono importanti quote di mercato nella produzione mondiale di alluminio, ferro, acciaio, platino, cobalto, rame, nichel, palladio, e titanio, elemento strategico per l’aviazione detenuto per il 25% del mercato mondiale dal colosso russo Vsmpo-Avisma, che produce anche leghe di alluminio, magnesio e acciaio. Anche il gruppo siderurgico russo Severstal’, uno dei più grandi al mondo, recentemente ha bloccato le consegne in Europa, in media circa 2,5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno, in risposta alle recenti sanzioni subite dal suo principale azionista, Alexei Mordashov.

A seguito del blocco logistico delle esportazioni dalla Russia, anche i prezzi dei minerali di transizione si sono surriscaldati, come il cobalto a oltre $79.000 per tonnellata, e il nichel, che ha raggiunto il massimo senza precedenti di oltre $100.000 per tonnellata, portando la London Metal Exchange a sospenderne le transazioni per un giorno. Oltre la metà della produzione di questi due minerali, che già prima dello scoppio del conflitto, registravano prezzi in salita per l’aumento della domanda collegata alla transizione energetica, è detenuta da pochi paesi: la Russia è il 2° produttore mondiale di cobalto con oltre il 6% della produzione mondiale, dopo la Repubblica Democratica del Congo (RDC) che ne produce il 69% e seguita dal 4% dell’Australia, ma è anche il 3° produttore di nichel, con oltre l’11% della produzione mondiale, dopo Indonesia a quota 30% e Filippine 13%. Già nel 2021, l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) aveva espresso timori per l’incombente discrepanza tra le ambizioni climatiche e la disponibilità dei minerali necessari, tanto più che per passare dalla scoperta di un giacimento alla produzione mineraria occorrono in media oltre 16 anni. Nichel e cobalto sono gli elementi chiave delle batterie elettriche, e secondo Global Data rappresentano il 35-40% del costo di un veicolo elettrico. Nel 2021 a livello globale sono state vendute 6,6 milioni di auto nuove elettriche, circa il 9% del mercato automobilistico, ma i rincari, difficilmente calmierabili dai sussidi, rischiano di fermarne l’espansione, a spese della lotta al cambiamento climatico.

Infine, il capitolo energetico. La Federazione Russa è il 3° esportatore al mondo di carbone, dopo Australia e Indonesia. Dai dati Banchero e Costa, nel 2021 ha prodotto oltre il 15% delle spedizioni mondiali via mare di carbone (1.772 milioni di tonnellate), con un aumento del 9,6%, in rimbalzo di oltre 3 punti percentuali rispetto alle perdite 2020. Cina e Ue ne hanno assorbito le principali quote, rispettivamente 23% e 22%.

Riguardo il greggio, la Russia con l’Arabia Saudita detiene la principale quota di produzione mondiale pari a oltre 10 milioni di barili a testa al giorno, e ha come principale cliente la Cina, che importa dalla Federazione Russa una media di oltre 1.600.000 barili al giorno.

Infine, il gas, le cui forniture russe verso l’Unione Europea finora non si sono mai interrotte o ridotte. In generale, come osservato dall’esperto analista Demostenes Floros, già nel corso del 2021 c’era stato un aumento mondiale del prezzo medio delle fonti fossili di poco più del 100%, manifestatosi diversamente nelle aree geografiche: negli Usa di poco al di sotto del 70%, in Cina e in India di circa il 100%, in Ue 128%, in Germania 140% e l’Italia +180%, che paga il prezzo più alto.

Intanto, per la cronaca, volano in Borsa le società di energia rinnovabile, che in questo contesto trovano per la prima volta strada spianata, dando alternative alla dipendenza energetica dei paesi UE dall’estero.

Il peggioramento del conflitto in Ucraina prospetta il perdurare dell’impennata dei prezzi dell’energia come delle altre materie prime, che esacerba l’inflazione europea già alta, generata in parte anche dalla immissione di denaro per finanziare la ripresa.

Ma mentre campagne assordanti di buoni e cattivi stordiscono le menti europee, portandole verso la stagflazione, il resto del mondo si muove in altre direzioni. Un segnale importante giunge dall’India, che sta lavorando alla creazione di un meccanismo di commercio rupia-rubli, che prende lo yuan come moneta di riferimento. Secondo alcuni esperti, combinando il  SPFS, sistema di trasmissione dei messaggi finanziari, messo a punto dalla Banca centrale della Federazione Russa nel 2014 dopo le minacce Usa di espulsione dallo SWIFT, con il CIPS, Cross-Border Interbank Payment System, sistema di pagamento cinese sviluppato nel 2015 per regolare i crediti internazionali in yuan e i commerci in ambito Bri. Il CIPS nel 2021 ha gestito transazioni per 80 trilioni di yuan (circa 13 trilioni di dollari), e alcune banche russe vi sono già collegate. Si sta dunque implementando un sistema di transazione finanziaria completamente de-dollarizzato, che potrà attrarre le riserve del popoloso e promettente Sud del mondo.

Secondo una recente proiezione Censis-Confcooperative, rincari commodity, difficoltà di approvvigionamento, mancato export verso la Russia, chiusura dei flussi turistici russi, in Italia mettono a rischio default 184.000 imprese, che occupano 1,4 milioni di persone, da cui dipende il 3% del Pil 2022. Altre proiezioni dicono che se nei mesi a venire la situazione resterà invariata, il 60% della manifattura tedesca chiuderà, mentre in Italia questa percentuale potrebbe salire al 70%. È dunque auspicabile che l’Ue ritrovi rapidamente la cultura della diplomazia e una propria visione autonoma, affrancandosi dagli interessi atlantici che non rispondono ai propri.

La pace è il sentirsi reciprocamente al sicuro e l’attuazione di politiche di disarmo. L’Europa dovrebbe innanzitutto partire da qui, perché la pace è interesse generale supremo e prioritario di tutti i popoli, sempre.