© Michela Canalis
Interventi

La risposta degli USA al caro noli

L’uragano di un batter d’ali

di Davide Magnolia

Avvocato LCA Studio Legale

Il trasporto marittimo è indubbiamente il motore principale per lo sviluppo del commercio internazionale. Secondo i dati forniti nell’ottavo Rapporto Annuale “Italian Maritime Economy”, presentato da SRM a luglio di quest’anno, il 90% delle merci viaggia via mare ed il comparto dei trasporti e della logistica rappresenta circa il 12% del PIL globale. La movimentazione dei container a livello mondiale dovrebbe crescere con una media del 4,8% annuo fino a raggiungere, entro il 2025, la mirabolante soglia del miliardo di TEU trasportati.

La pandemia ha, però, portato alla luce le prime crepe di un sistema le cui fondamenta sembravano, all’apparenza, ben solide: negli ultimi mesi si è assistito a porti congestionati, carenza di container vuoti, blank sailing e ritardi nelle catene di approvvigionamento. Dal blocco del Canale di Suez in poi, i noli marittimi su alcune delle principali rotte hanno iniziato ad incrementare in modo esponenziale con prezzi che sono cresciuti in media del 400% fino a picchi dell’800%.

La metafora del Financial Times è ancora attualissima: il commercio marittimo è sotto la “tempesta perfetta” e, per il momento, non si intravedono schiarite all’orizzonte. Insomma, per calarla nel nostro contesto, siamo in una perenne “allerta rossa”.

E’ un dato oramai acquisito che l’impatto generale delle attività marittime sull’economia vada ben oltre gli aspetti legati alla dimensione trasportistica e coinvolga direttamente i settori produttivi, manifatturieri e terziari. In un sistema in cui commercio e logistica sono comparti sempre più stretti e interdipendenti, l’aumento dei prezzi del trasporto non può non avere un effetto a cascata sulle catene di distribuzione. Se, infatti, il costo della tratta marittima dovesse continuare a mantenere un’incidenza (troppo) elevata nella filiera della supply chain, le aziende si troveranno, come reazione, a dover necessariamente ripensare ai propri modelli di business.

E molte si stanno già muovendo in questa direzione. E’ l’adattamento della legge di Stevino: in un sistema di vasi comunicanti, il fluido raggiunge sempre lo stesso punto di equilibrio in tutti i recipienti qualunque sia la loro forma e dimensione. Le aziende hanno a disposizione diverse soluzioni: ampliare la catena dei fornitori dislocati in regioni differenti, incrementare o gestire diversamente le proprie scorte a magazzino, adottare una produzione più flessibile fino, in estremo, a ripensare integralmente al proprio sistema di delocalizzazione produttiva. Non è un caso che, nell’ultimo periodo, si sta assistendo ad un dibattito sempre più acceso sulle strategie di nearshoring o reshoring con cui le aziende cercano di rilocalizzare i centri di produzione per avvicinarli a quelli di consumo.

Tutto questo, però, potrebbe non essere sufficiente in un comparto in cui la spia luminosa che segnala un problema di autoregolamentazione è accesa, ininterrottamente, oramai da mesi. Mentre in Europa ed in Italia molti stakeholder ed associazioni di categoria chiedono a gran voce un intervento pubblico regolatorio, negli USA qualcosa si muove e la direzione pare essere di carattere protezionistico.

Con una proposta di legge bipartisan denominata Ocean Shipping Reform Act of 2021 (OSRA21), i due promotori al motto di “foreign ocean carriers aren’t playing fair and American producers are paying the price” (Dustin Johnson) e “foreign businesses’ access to the American market and its consumers is a privilege, not a right” (John Garamendi) vorrebbero, nelle intenzioni, cercare di riequilibrare i rapporti di forza, a loro dire ormai troppo sbilanciati, tra i caricatori da un lato e gli ocean carrier stranieri dall’altro.

L’OSRA21 dovrebbe quindi fornire maggiori poteri di controllo alla FMC (Federal Maritime Commission) sulle pratiche anticoncorrenziali e sulle tariffe degli ocean carrier, introducendo anche una regolamentazione più severa in tema di Demurrage & Detention. Sembra dunque che la prua sia puntata principalmente verso la categoria degli ocean carrier. L’obiettivo, a detta di John Garamendi, è quello di fare in modo che gli esportatori, gli importatoti e le shipping companies possano giocare lo stesso ruolo “in a competitive environment in which there is no undue power held by the shipping industry”.

Non sono mancate, ovviamente, le proteste di chi ritiene miope, ed ingiusto, in un sistema osmotico e interconnesso, che il governo intervenga per regolare una sola tra le numerose categorie di attori del comparto. In particolare, secondo il Word Shipping Council, non si possono alterare gli equilibri del mercato, per legge ed in modo permanente, in risposta ad uno stress temporaneo causato da una domanda di importazioni senza precedenti.

Vedremo se l’OSRA21 avrà sufficiente forza per essere approvato dal Congresso o rimarrà un semplice proclama. Se veramente il batter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas, come si domandava il matematico e meteorologo Edward Lorenz, aspettiamo di vedere le conseguenze che avrà una tale scelta di campo nel vecchio continente. D’altronde peggio di così le cose non possono andare. Diceva l’ottimista.

Torna su