Interviste

Colloquio con Francesco Munari

«I porti nelle mani di una politica miope»

di Marco Casale

Gestire i porti oggi? È come guidare un tir in una strada di montagna. Con gli occhi fissi sulla carreggiata, senza distrazioni, attenti a evitare ogni minimo rischio pur di non precipitare nel baratro.

Per il professor Francesco Munari, docente all’Università di Genova ed esperto di diritto dei porti, «si vive insomma alla giornata, anzi peggio. Toninelli? Abbiamo avuto ministri più interessati al nostro settore. Tuttora risultano poi poco definiti i rapporti e le deleghe col viceministro Rixi, e tutto ciò nuoce anche alla certezza degli interlocutori e alle politiche portuali. Mi pare che questo Governo non abbia del tutto compreso ancora la dimensione reale delle sfide che attendono i porti di qui a vent’anni. Manca una visione – e quindi l’impostazione di una politica dei trasporti – che ci aiuti a capire verso quale direzione voglia dirigersi la nave Italia: basti pensare alle incertezze sulla realizzazione delle grandi infrastrutture, vitali invece per lo sviluppo del comparto portuale e in realtà del Paese».

Il principale pericolo diventa così quello di andare alla deriva: «C’è qualcuno che sta cercando di capire come sarà il sistema dei trasporti tra quindici, vent’anni? I grandi vettori marittimi stanno scendendo a terra, occupando le infrastrutture dei porti – che sono per natura risorse scarse – ed estendono adesso la loro presenza anche alla catena logistica terrestre, svolgendo attività di trasporto ferroviario e stradale».

Per Munari questi sono i fenomeni «a cui bisogna guardare e che dovremmo studiare sul piano delle regole e degli effetti che queste iniziative possono avere per l’intera filiera logistica, delle imprese e del lavoro in Italia». L’obiettivo è «capire se è o meno (e credo di no) nell’interesse dell’economia nazionale, che vive di esportazioni, doversi confrontare con pochi giganti stranieri sulle condizioni di competitività del Paese. Non si può affidare il controllo di gran parte dei terminal portuali alle grandi linee di navigazione. Dobbiamo sforzarci di tenere distinti i ruoli: fra chi fa attività di trasporto marittimo e chi gestisce le attività di impresa nei porti. Di questo tema – centrale per il futuro della logistica e dell’economia nazionale – si parla troppo poco».

Manca poi una seria riflessione anche sui problemi connessi al gigantismo navale: «Perché mai dobbiamo restare passivi (come Europa, visto che come Italia da soli ogni iniziativa sarebbe inefficace) rispetto a scelte di compagnie come Maersk, MSC, Cma-Cgm a portare nel Mediterraneo containership da 22mila TEU? Perché il contribuente nazionale deve pagare per adeguare infrastrutture alle esigenze di pochissimi vettori, che corrono verso il gigantismo per escludere quei vettori concorrenti che non riescono a fare gli stessi investimenti, elevando così le barriere all’entrata nel mercato a livelli insostenibili? Ce lo dice anche l’OCSE in un rapporto di poche settimane fa: il comparto si indirizza verso scenari nei quali i grandissimi vettori riusciranno ad agevolare collusioni e cartelli. E se non si agisce sarà tardi per evitare le gravi distorsioni che tutto ciò potrà avere su un settore strategico per l’Italia: tra breve soltanto due o tre porti saranno in grado di ospitare questi giganti, gli altri dovranno chiudere. Questi effetti sociali, sul lavoro, sull’ambiente, sull’efficienza della catena logistica dovrebbero diventare materia di discussione per chi ha a cuore gli interessi nazionali».

Quella di Munari è una professione di lucido pessimismo: «Ci troviamo in un momento di enormi cambiamenti e nessuno s’interroga sul futuro. Un futuro nel quale presto potranno anche apparire nuovi modelli di business dominati dai grandi venditori via Internet che si stanno costruendo le loro navi, le loro grandi catene di distribuzione, bypassando a loro volta gli stessi vettori marittimi… E mentre sta accadendo tutto questo, in Italia che succede? Ci si gingilla sulla natura giuridica delle Autorità di Sistema! Mi verrebbe da ridere se non ci fosse piuttosto da piangere».

Al riguardo, il suo giudizio sul Governo si fa ancora più impietoso: «Non mi pare abbia compreso gli effetti ultimi della questione sull’imposizione fiscale relativa ai canoni demaniali incassati dalle AdSP. La Commissione di Bruxelles sbaglia a considerarle imprese che esercitano attività economiche. Invece di difendere l’esistente e contestare l’approccio della Commissione, l’esecutivo ha preferito limitarsi a spedire a Bruxelles lettere concilianti nelle quali apriva a possibili correttivi dello status quo, non rendendosi conto che le procedure attivate dalla Commissione richiedevano specifici passi che non sono stati compiuti».

Per Munari la natura giuridica delle Autorità portuali è invece chiarissima («Non sono imprese, punto») e l’Italia dovrebbe quindi opporsi alla Commissione, ricorrere al tribunale di Lussemburgo e se ciò non bastasse anche alla Corte di Giustizia. «Invece stiamo zitti e accettiamo come se niente fosse i diktat della Commissione». Da qui la sua denuncia: «Non sembrano comprendersi i diversi tavoli in cui si deve operare a livello europeo. Ma davvero lo Stato italiano vuole appaltare la sua politica dei trasporti a un gruppo di funzionari della DG Comp? Affidarci a loro è come chiedere ai vampiri di tenere di notte i nostri bambini. Un conto è affrontare una riforma dei porti a livello politico; altra cosa è non reagire di fronte a procedimenti su presunti aiuti di Stato. Affidare ai funzionari che si occupano di State Aids le prospettive di modifica della legge n. 84/1994 non ha alcun senso perché il loro compito è diverso dal valutare i disegni di legge degli Stati, e i loro strumenti sono solo quelli di punire o meno la violazione di norme antitrust. Con la conseguenza che l’inerzia verso queste decisioni condizionerà ogni futura possibilità di ragionare, se e mai ne avessimo bisogno, di ulteriori riforme della nostra normativa».

E se provassimo a cambiare la natura giuridica delle Autorità di Sistema? «Finiremmo dalla padella alla brace. Se venissero trasformate in Enti pubblici economici, le AdSP non potrebbero più ricevere alcun finanziamento pubblico senza il vaglio della Commissione, perché questo si configurerebbe come aiuto di Stato!». Quando al modello Spa, «di che cosa stiamo parlando? Avrebbe un senso solo se ci decidessimo ad affrontare il tema della privatizzazione dei beni demaniali.  Viceversa, che tipo di vantaggio potremmo ottenere da Spa di natura pubblica? Non gestirebbero alcunché dal momento che i porti sono già in mano ai privati attraverso le concessioni. Gli unici, residui ambiti di loro competenza sarebbero quelli della rendita immobiliare e della regolamentazione. Impensabile. Così come è impensabile che una Spa pubblica possa farsi gare private che esorbitino dal rispetto delle normative sugli aiuti di Stato».

Munari è convinto che si tratti insomma di una soluzione sbagliata a un problema vero: «Possiamo semplificare l’azione delle pubbliche amministrazioni, incluse le Autorità di sistema portuale, limitandoci a una revisione delle norme sugli appalti pubblici, applicando in modo corretto le direttive dell’Unione europea. Noi invece siamo riusciti a complicare tutto, a trasformare le direttive comunitarie in un Vietnam non solo per i porti ma anche per tutte le altre PA. Siamo diventati il Paese dei grandi investimenti mai realizzati: sono trent’anni che parliamo del Terzo Valico… In questo contesto normativo, che ci siamo complicati noi rispetto agli altri Stati europei, si inseriscono poi altre autorità pseudo-indipendenti i cui compiti istituzionali non sono coordinati con quelli delle ADSP, così condizionando le attività di altre amministrazioni, in un sistema di confusione normativa che ulteriormente rallenta, scoraggia e complica investimenti e crescita. Sarebbe importante che le nostre istituzioni si dessero carico di chiarire i ruoli di ART (Autorità di Regolazione dei Trasporti) e di ANAC (Autorità Nazionale AntiCorruzione) nel settore portuale, i loro rapporti con le ADSP e i rispettivi spazi che ciascuno deve esercitare».

Per l’avvocato marittimista l’origine dei problemi è insomma sempre la stessa: «Non si fa sistema a livello istituzionale. Ognuno si esprime in libertà e alla fine l’unico risultato è l’incertezza, che nuoce gravemente al sistema e al suo sviluppo». Un ragionamento che vale anche per Assoporti: «Bisognerebbe che l’intero cluster portuale valorizzasse l’Associazione invece di consentire che ciascuno proceda per proprio conto. La cosiddetta democrazia diretta è applicata a tutti i livelli, quando invece è fondamentale recuperare i corpi intermedi e la sintesi delle opinioni dopo aver ponderato le diverse posizioni».

Munari chiede tempo a chi invoca una riforma della riforma Delrio ad appena due anni dalla sua entrata in vigore: «Per testare l’efficienza dei nuovi sistemi portuali ci vogliono almeno quindici anni, metterli in discussione ora non ha senso. Quello che dobbiamo fare è cercare di applicare, correttamente, le norme che già ci sono. Bisogna restituire ai porti la loro autorevolezza come articolazione dello Stato, bisogna guadagnare terreno sul fronte della competitività. Vedo invece che tanti presidenti di Autorità di sistema si muovono in modo indipendente e incontrano (o dicono di incontrare) rappresentanti di governi stranieri. In Cina c’è uno Stato che ha una politica e soprattutto una dotazione multimiliardaria per investimenti sulle infrastrutture in Eurasia (e in Africa) e la usa – dal suo punto di vista del tutto legittimamente – come strumento di forte impatto esterno e di lungo periodo della propria sovranità; di contro, noi stiamo ancora qui a discutere di Spa… Mi pare che ci sia un gap incredibile, e sarebbe ora che tutti ce ne rendessimo finalmente conto».

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