Porto di Livorno - Nave al largo
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Interventi

Registro navale, una rotta di successo lunga vent’anni

di Angela Stefania Bergantino

Professore ordinario di Economia dei Trasporti all’Università di Bari
Presidente di SIET – Società Italiana di Economia dei Trasporti e della logistica

Ricorre quest’anno il ventennale dell’introduzione in Italia del registro internazionale (decreto legge n. 475/1997 convertito con modificazioni nella legge n. 30 del 27 febbraio 1998).

Prendendo spunto dalle migliori esperienze a livello mondiale e facendo seguito anche alle raccomandazioni dell’Unione Europea, nel 1998 si è infatti deciso di adottare questo strumento per assicurare certezze nelle regole e ridare competitività a un comparto industriale che da molti anni versava in uno stato di declino.

Il registro interveniva finalmente sul costo del lavoro e prevedeva una serie di agevolazioni, in particolare la cosiddetta Tonnage tax (decreto legislativo n. 344 del 12 dicembre 2003) mutuata dall’esperienza maturata in altri Paesi europei.

Questo regime opzionale di tassazione forfettaria del reddito derivante dalle attività marittime rispondeva peraltro a richieste che non provenivano più soltanto dalle imprese armatoriali italiane, i cui diretti competitor godevano di un vantaggio di minor costo anche del 45% (si pensi ai registri panamense, greco o norvegese).

A reclamare come improcrastinabile una soluzione di questo tipo erano state anche le stesse organizzazioni sindacali, nazionali e non. L’International Seafarers Federation aveva ad esempio ispirato diversi studi scientifici e pubblicazioni per comprendere come far fronte da un lato alla domanda di marittimi da parte delle flotte comunitarie e dall’altro al paradossale calo nell’offerta di lavoro di personale qualificato in ambito europeo.

Fino a quel momento la progressiva e costante riduzione di naviglio iscritto ai registri nazionali aveva comportato un calo significativo nella forza lavoro di origine europea che anticipava il trend negativo di una domanda che all’epoca sembrava inarrestabile.

La perdita di navi a favore di registri non europei stava determinando la perdita tanto di posti di lavoro quanto dell’attrattività stessa dell’impiego nel settore marittimo: sia quello a bordo delle navi sia quello, a maggior valore aggiunto, nel management armatoriale.

La delocalizzazione delle navi – alla quale faceva immediatamente seguito quella degli uffici (le cosiddette brass plate company) – implicava infatti una minore domanda di ufficiali e personale con esperienza nonché condizioni di lavoro meno appetibili per coloro che avrebbero dovuto continuare a lavorare all’estero dopo aver trascorso molti anni a bordo.

L’introduzione del registro pose così rimedio sia alla fuga di navi dalla bandiera italiana sia – attraverso un sistema ben articolato di incentivi – alla necessità di rinnovare la flotta. La qualità di quest’ultima e del suo personale veniva infatti assicurata legando i benefici del registro in termini di costi a una serie di requisiti sull’età delle navi e sulle attività di formazione dei marittimi.

I risultati non hanno tardato ad arrivare e si sono dimostrati duraturi. Lo dimostra il fatto che all’inizio di quest’anno la flotta battente bandiera italiana era pari a circa 16 milioni di tonnellate di stazza lorda (raddoppiata quindi nell’arco di questo ventennio). Si tratta della seconda in Europa e della terza dei Paesi del G20. Considerando poi il genuine link, risulta tra le più giovani e moderne al mondo con ricadute ambientali fortemente positive.

Alla crescita della flotta ha corrisposto un aumento significativo degli occupati diretti. Secondo Confitarma si è passati da 30mila a 67mila lavoratori, di cui più della metà comunitari. Il personale extracomunitario è impiegato principalmente sulle navi che servono rotte internazionali, dove la concorrenza è più agguerrita.

Il registro internazionale e la Tonnage tax hanno dunque alimentato in questi anni la cosiddetta Blue Economy: un sistema che nonostante la crisi ha tenuto e che oggi funziona, porta reddito e occupazione. Genera oltre il 2% del nostro PIL (occupando poco meno di 400mila persone tra addetti diretti e indiretti) e il cluster marittimo spende annualmente in acquisti quasi 20 miliardi di euro.

La Blue Economy va quindi considerata in un’ottica sistemica, all’interno di un quadro globale molto competitivo e volatile data l’estrema mobilità dei fattori produttivi.  Scegliere una bandiera per una nave – e quindi un Paese per un armatore – oppure un porto per una call può significare differenze di costo per centinaia di migliaia di euro e un impatto indiretto ancora più rilevante.

La mancanza di una visione complessiva può portare conseguenze molto negative, come da molte parti si paventa per la recente entrata in vigore dell’obbligo di imbarcare solo personale comunitario su unità ro-ro e ro-pax iscritte al registro internazionale impegnate su traffici nazionali (anche misti), come previsto dal decreto legislativo n. 221 del 29 ottobre 2016.

La preoccupazione nasce inoltre dall’assenza, anche tra gli stati maggiori (ufficiali di coperta e macchina), di personale qualificato e disponibile a imbarcarsi. S’impone pertanto un’analisi attenta e rigorosa dell’attuale mercato del lavoro, che veda collaborare gli armatori e le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro marittimo.

Proprio per questo l’8 giugno 2017 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la dichiarazione de La Valletta sulla politica comunitaria marittima, che tra le priorità nelle politiche di sostegno all’industria di settore indica una maggiore competitività, la decarbonizzazione e la digitalizzazione, «per assicurare una connessione globale, un mercato interno efficiente e un settore marittimo di primo livello».

Diversi Paesi hanno poi presentato proposte di modifica e/o integrazione dei regimi fiscali agevolati al settore e, in questa fase di rinnovamento, anche il registro italiano necessita senz’altro di un fine tuning.

Tuttavia occorre capitalizzare quanto finora è stato fatto, mantenendo un level playing field rispetto ai tanti competitor europei e non: una condizione essenziale in un settore aperto alla concorrenza e fortemente mobile che rappresenta per il nostro Paese una grande opportunità di lavoro, crescita e relazioni.

Su tutti questi aspetti l’Italia può infatti giocare un ruolo decisivo, rimanendo all’avanguardia. Ma per farlo deve presentare una strategia, declinata in target precisi all’interno di una programmazione complessiva delineata da una governance forte e unitaria del mondo del mare.

 

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