Lo Stretto di Hormuz è una delle principali vie marittime al mondo per il transito del petrolio mondiale: lo attraversano in media 20 mln di barili al giorno.
La guerra tra Israele e l’Iran potrebbe avere delle chiare ripercussioni su questo braccio di mare che collega il Golfo dell’Oman con il Golfo Persico all’interno del Mare Arabico, spingendo in sostanza le compagnie di navigazione specializzate nel traffico di greggio a cercare strade alternative a quella offerta dalla via marittima arabica e costringendo i Paesi del Golfo, chi più chi meno, ad un qualche tipo di reazione.
Ma quanto è alta la probabilità di un blocco imminente di Hormuz dopo gli attacchi israeliani all’Iran? Lo abbiamo chiesto ad Ennio Palmesino. “Non è la prima volta che Teheran minaccia di chiudere Hormuz” afferma a Port News l’esperto broker marittimo.
“Negli ultimi quindici anni è capitato diverse molte, ma mai è accaduto che l’Iran desse veramente seguito alle proprie minacce con delle azioni concrete” aggiunge. “Il motivo è che lo Stato Asiatico ha quasi tutti i suoi principali terminal petroliferi dislocati nel Golfo Persico, e l’eventuale chiusura dello Stretto rischierebbe di danneggiare prima di tutto i suoi interessi economici” fa osservare, precisando però: “oggi qualcosa è cambiato con la realizzazione di una pipeline da 1,8 miliardi di dollari in grado di convogliare il petrolio estratto in varie zone della Paese sino alle nuove banchine del porto di Yask, ubicato sulla costa meridionale dell’Iran. In questo modo il paese sarebbe in grado di spedire il proprio greggio in tutto il mondo senza dover attraversare a sua volta lo Stretto”.
Le probabilità quindi che ora lo Stretto chiuda sono molto più altre rispetto al passato. Ma non così alte da potersi concretizzare con facilità, secondo l’esperto.
Il perché è presto detto: “Non dobbiamo dimenticare che nell’area è attiva sin dal 2020 la missione navale europea di sorveglianza nello Stretto di Hormuz(EMASoH)” afferma.
“Iniziata dopo il sequestro da parte iraniana del mercantile britannico Stena Impero, la missione si propone oggi di proteggere dal pericolo di minacce asimmetriche la libertà e la sicurezza della navigazione dei mercantili riconducibili ai Paesi partecipanti. In teoria, quindi, le forze navali europee presenti nella zona avrebbero una capacità di intervento immediata nel caso in cui Teheran dovesse decidere di fermare il traffico petrolifero e gasiero via mare in transito da quel braccio di mare” spiega.
Intanto però i mercati finanziari hanno risposto agli attacchi di Israele all’Iran nel modo in cui tutti si aspettavano, con una forte crescita del prezzo del petrolio e la chiusura del WTI la sera del 13 giugno attorno ai 73 dollari. I picchi raggiunti dall’inizio dalla guerra in Ucraina, 120 dollari al barile, sono però ancora lontani. “L’Iran offre in media 3,3 milioni di barili di greggio al giorno su un consumo globale di 104 mln di barili, si tratta del 3% dell’offerta mondiale che potrebbe essere messa in pericolo dall’attuale situazione congiunturale. E’ normale dunque che le borse vadano nel panico tutte le volte che un evento arrivi a destabilizzare l’area” commenta Palmesino, che però invita alla prudenza: “Una cosa sono le reazioni isteriche dei mercati finanziari, un’altra sono le reazioni concrete dei raffinatori e dei grandi industriali del petrolio. Quello che posso dire è che il petrolio oggi non manca. Anzi ce n’è in abbondanza”.
E’ chiaro che con Hormuz bloccato i noli salgano inesorabilmente e che gli importatori comincino a cercare greggio da altre aree più sicure. Ma molto dipenderà dagli sviluppi futuri e dalle risposte militari dell’Iran.
I riflettori sono per ora puntati su tutti i Paesi del Golfo. Come reagiranno ad una possibile chiusura dello Stretto? “Occorre distinguere i Paesi che negli anni hanno investito nella costruzione di pipeline alternative da quelli per i quali lo Stretto è e rimane l’unica via percorribile” dichiara l’esperto broker marittimo.
“L’Iraq pompa parte del suo greggio sulla pipeline che collega il Kurdistan iracheno alla Turchia; l’Arabia Saudita esporta il 30% del suo greggio tramite la Petroline, che collega i giacimenti petroliferi della provincia orientale con il terminale di Yanbu sul Mar Rosso, consentendo l’esportazione di petrolio verso l’Europa e gli Stati Uniti. Gli Emirati Arabi hanno completato un oleodotto di 360 km che collega i giacimenti petroliferi occidentali con il Golfo di Oman”.
Per Palmesino questi tre paesi hanno insomma la possibilità di mitigare i contraccolpi negativi che deriverebbero dal blocco di Hormuz, a differenza degli altri, che, a cominciare dal Qatar e dal Bahrein, rischierebbero invece di essere letteralmente soffocati da una escalation delle tensioni tra USA, Iran e Israele.
“Anche l’Arabia Saudita vedrebbe ridursi del 70% la propria capacità di esportazione del greggio – precisa Palmesino – ma dubito abbia la forza militare di riuscire a rispondere all’offensiva militare iraniana. Già nel 2019 il Paese subì un attacco dall’Iran, con danni ingenti agli impianti petroliferi di Aramco, ma non reagì in alcun modo, così come non è stata in grado, in questi anni, di sconfiggere gli Houthi al confine con lo Yemen”.
Per l’esperto broker la missione Emasoh è insomma l’unica ancora di salvezza in caso di blocco dello Stretto. “Spero che Bruxelles ne sia consapevole e che sia pronta ad intervenire se la situazione dovesse sfuggire al controllo”.