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Interventi

Tra flessibilità e sicurezza

Autoproduzione, quel dilemma che agita le banchine

di Marco Casale

Per aumentare la competitività di uno scalo si deve puntare su una maggiore flessibilità nell’organizzazione oppure il lavoro portuale va tutelato nelle sue forme tradizionali? Inutile far finta di nulla: riemerso recentemente come un fiume carsico, il tema dell’autoproduzione è tornato ad avvelenare i rapporti in banchina tra imprenditori e rappresentanze sindacali. Da tempo il fronte armatoriale va infatti chiedendo di poter compiere con il proprio personale a bordo le operazioni di rizzaggio (messa in sicurezza) e derizzaggio delle merci. Un diritto che – pur riconosciuto dall’articolo 16 della legge n. 84/94 e dal successivo Decreto ministeriale n. 585/1995 – i sindacati hanno invece sempre categoricamente contestato: «Vanno rispettate le regole comuni  e chi opera nel porto deve evitare forme di concorrenza improprie» obiettano a muso duro  le parti sociali, preoccupate che l’apertura all’autoproduzione, oltre a mettere a rischio alcune migliaia di lavoratori, determini l’impiego di figure generiche per le operazioni portuali. Un’evoluzione dei processi lavorativi che produrrebbe un ulteriore livellamento verso il basso degli standard richiesti in termini di competenza e professionalità, a motivo della presenza a bordo di equipaggi multietnici (soprattutto extraeuropei) imbarcati su navi battenti bandiere di comodo. Brucia ancora il caso recente delle operazioni portuali fatte in autoproduzione dai marittimi della portacontainer Susan Borchard, approdata al porto di Genova a fine aprile.

Per il mondo sindacale la questione è  piuttosto chiara: l’armatore non può e non deve risparmiare sul personale; se ottiene il permesso a operare come impresa, deve assumere persone qualificate e specializzate nelle attività di cui si chiede l’autoproduzione. Detta in soldoni, scordatevi di utilizzare un marittimo tuttofare per 400 euro al mese. Va però precisato che la storia del marinaio di bordo sottopagato e sfruttato per far risparmiare alla compagnia un aggravio “inutile” di costi non convince del tutto: lo scarso ricorso finora fatto dagli armatori all’autoproduzione dimostra come questa alla fine non sia così conveniente. Il self handling per fasi significative o per tutto il ciclo operativo richiederebbe infatti una struttura organizzativa a terra formata da lavoratori comunque soggetti all’applicazione del contratto nazionale di categoria o equivalente (come previsto dal comma 13 dell’ articolo 17 della legge n. 84/94).

Sullo sfondo di tale discussione si affacciano nel frattempo altre questioni: il fenomeno dell’integrazione verticale dei vettori marittimi (acquisendo quote di terminal le compagnie di navigazione operano già una sorta di autoproduzione) così come il problema della debole capacità di intervento delle Autorità portuali nel mercato del lavoro. Non è un caso che Assarmatori abbia già sollecitato l’Autorità di regolazione dei trasporti (ART) perché faccia finalmente chiarezza sui criteri oggettivi in forza dei quali le AdSP debbano rilasciare o meno l’autorizzazione all’autoproduzione. Il dibattito resta quindi apertissimo e c’è chi ipotizza addirittura che un armatore che abbia ottenuto di svolgere le operazioni portuali con mezzi e uomini propri possa poi appaltare porzioni di ciclo ad altre imprese autorizzate ex articolo 16.

Altro discorso è quello dell’applicabilità del self-handling ai servizi tecnico-nautici (pilotaggio, ormeggio, battellaggio e rimorchio): se è vero che il diritto di autoproduzione dei vettori marittimi non può essere azzerato aprioristicamente e che nessuno può obbligare un armatore ad avvalersi di imprese locali esercenti attività per conto terzi, lo stesso ragionamento non può essere fatto per i servizi ancillari della navigazione. Questi ultimi si caratterizzano infatti per la capacità di promuovere e tutelare interessi generali e di rilievo extra-economico, e in quanto tali sono sottratti alle regole del mercato e quindi anche all’autoproduzione (come stabilito dal comma 2 dell’articolo 9 della legge n. 287/1990). In altri Paesi la situazione è diversa. In Gran Bretagna, dove prevale un approccio meno ideologico, è ad esempio in vigore da tempo il Pilotage Exemption Certificate, che esonera l’armatore dall’obbligo di servirsi di un pilota se dimostra di avere già a bordo determinate professionalità che garantiscano la navigazione in tutta sicurezza. E allora si torna al punto di partenza: fino a che punto le tutele e le garanzie sociali sul lavoro in porto possono frenare un aumento della competitività dei nostri scali marittimi?

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