Porto Livorno - Rizzaggio
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Interventi

Ricerca del profitto a tutti i costi

L’autoproduzione non fa gli interessi del Paese

di Maurizio Colombai

Coordinatore nazionale Dipartimento Portuali/Marittimi FILT CGIL

Il recente sciopero nazionale di 24 ore dei lavoratori dei porti, marittimi e dei servizi tecnico nautici ha avuto il merito di riportare all’attenzione generale il tema dell’autoproduzione nell’ambito delle operazioni portuali e dei servizi ancillari alla navigazione. Per le associazioni datoriali queste dovrebbero essere liberalizzate e quindi poter essere svolte dagli armatori con proprio personale. Premesso che in CGIL i diritti si rispettano a prescindere, si tratta di trovarsi d’accordo sull’interpretazione della norma: la libertà del mondo armatoriale non può iniziare dove finisce quella dei lavoratori.

Per quanto attiene all’esercizio dell’autoproduzione delle operazioni portuali, questa attività è definita dalla norma vigente nazionale che ne stabilisce l’obbligatorietà autorizzativa attraverso criteri mirati a salvaguardare la sicurezza sul lavoro e le professionalità.

A livello internazionale il cosiddetto self handling è consentito negli scali nei quali non opera alcuna struttura operativa portuale di terra. Si tratta di una scelta nata per effetto di accordi tra sindacati e associazioni internazionali, uniti da una visione più collettiva e supportati da capillari propagande informative sindacali (Lashing Campaign) contro i POC (Port of Convenience) e i FOG (Flag of Convenience).

In Italia, per effetto di diversi ricorsi, si è già assistito a diversi pronunciamenti della magistratura. Comunque, al di là di quanto possa sentenziare un giudice, la nostra posizione è da sempre decisamente contraria all’autoproduzione: non per difendere posizioni di retroguardia ma perché riteniamo non si accordi con l’interesse generale del Paese e con la sicurezza sul lavoro.

L’egoismo, la ricerca del profitto a scapito di altri e la continua ricerca della soluzione imprenditoriale personalizzata sono medicine che nuocciono più della malattia stessa. La via maestra deve invece restare quella della tutela del patrimonio pubblico, rendendolo produttivo in termini occupazionali e di gettito erariale.

Ogni anno lo Stato italiano investe diverse centinaia di milioni nel settore dell’armamento e molto meno nelle imprese terminaliste. Se agli investimenti statali a favore delle compagnie armatoriali (per garantire la continuità territoriale o per consentire una maggiore competitività difendendo la bandiera italiana sul mercato globale dello shipping) si aggiunge la messa in disponibilità del demanio pubblico, ecco che il patrimonio del contribuente italiano da tradurre in lavoro e sviluppo diviene immenso.

Siamo costretti a constatare come a volte, nonostante le tante agevolazioni concesse, si vogliano realizzare ulteriori speculazioni: tagliando professionalità sicure, sostituendole con lavoratori marittimi già gravati da un lavoro pesante e mal retribuito. Ed è ancor più sgradevole assistere a violazioni della norma per assecondare guerre commerciali tra operatori dello shipping che troppo spesso tentano di avvantaggiarsi sul diretto competitore “derizzando” il materiale di sbarco durante la navigazione, così trascurando i rischi per la salute e l’inosservanza di diritti che questa folle pratica può comportare.

Per trovare un punto di equilibrio e uscire dalle sabbie mobili del conflitto perenne sarà necessaria una massiccia dose di buon senso. Vanno infatti individuate intese che sappiano dare risposte adeguate al lavoro e al sistema delle imprese nonché ricette equilibrate sul piano della tenuta dei costi e dell’efficienza.

Il contesto con cui il sistema portuale/logistico dovrà confrontarsi nei prossimi anni cambierà radicalmente rispetto al passato. Tanto l’assalto dei global carrier e della finanza ai segmenti della filiera del trasporto (compresi i terminalisti) quanto l’automazione dei processi produttivi non potranno fare a meno di un solido processo di governo “partecipato” delle dinamiche sociali.

La via del buonsenso non può quindi essere affidata né subordinata alla gestione autarchica e autoreferenziale dei singoli Presidenti delle Autorità di Sistema Portuale. La gestione casalinga dei progetti e delle opere infrastrutturali potrebbe infatti causare una ulteriore perdita di competitività della portualità nazionale, con gravi ricadute sul piano occupazionale. Un’ipotesi che va scongiurata e che non ci vedrà mai spettatori passivi.

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