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Interviste

Intervista doppia a Gian Enzo Duci e Gaudenzio Parenti

Il pantano logistico che rallenta il Paese

di Marco Casale

I porti italiani e un Sistema ancora da progettare, sulla scorta delle sfide aperte da Bruxelles (sul tema della tassazione dei porti) e dai processi di reshoring e nearshoring avviati a seguito della cosiddetta regionalizzazione della globalizzazione. Sono i temi su cui Gaudenzio Parenti e Gian Enzo Duci si sono confrontati in questa intervista doppia realizzata da Port News.

Entrambi gli ospiti hanno saputo dare un contributo particolare ad un dibattito che si è sviluppato su una molteplicità di argomenti e che ha avuto come minimo comun denominatore il futuro della portualità italiana.

Parliamo della situazione contingente. In una recente intervista rilasciata proprio su queste colonne, Gian Enzo Duci ha affermato come la disruption delle catena logistica abbia accelerato quei processi che già stavano cominciando ad affermarsi nel pre-Covid. Le attività di reshoring e nearshoring che si stanno materializzando porteranno sicuramente a una diversa configurazione dei traffici a livello internazionale. Il nostro Paese si trova in mezzo al guado. Ha gli strumenti per riuscire a cogliere le nuove opportunità?

Parenti: purtroppo, in alcuni aspetti riguardanti il settore trasportistico e infrastrutturale, il nostro Paese è rimasto fermo ai concetti degli anni ’80 e a progetti di 20 anni fa. C’è come la sensazione che si faccia fatica a non comprendere la continua rivoluzione logistica che è in atto, accelerata ulteriormente dalla pandemia e dalla guerra in corso. I singoli sistemi portuali continuano a progettare nuove banchine container, investendo centinaia di milioni di euro pubblici. Sappiamo però che sarà molto difficile superare più di 12 milioni di TEU in movimentazione nel nostro Sistema nazionale.

Dal mio modesto punto di vista, sarebbe forse stato più utili usare le risorse del PNRR e dei fondi complementari per mettere maggiormente in connessione e in sicurezza i nostri porti. In Italia, ci sono banchine che dovrebbero essere ammodernate infrastrutturalmente ed altre che addirittura rischiano di sprofondare sotto il peso delle nuove gru di ultima generazione. Questo è un dato di fatto. E poi c’è il tema dei collegamenti viari e di ultimo miglio. È qui che ci giochiamo la competitività del nostro futuro. Di certo, l’innalzamento iperbolico del costo delle materie prime può rappresentare un ulteriore ostacolo.

Duci: Gaudenzio ha ragione. Guardiamo alle nostre autostrade e a come siano state gestite in questi anni. È emerso chiaramente come il regolato abbia catturato il regolatore. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la nostra rete viaria è da terzo mondo. Della ferrovia abbiamo bisogno per traguardare i mercati esteri ed anche per allentare la pressione sulla rete autostradale (è sull’intermodalità ferro gomma che si progettano le reti logistiche moderne), ma a volte sembra quasi che ci dimentichiamo come gli scali portuali nazionali siano principalmente al servizio di economie regionali. I mercati di riferimento si trovano, per la maggior parte dei casi, entro i 150/200 km dalle banchine. Con queste distanze, è assai difficile immaginare un futuro per la logistica portuale senza i necessari investimenti nel settore dell’autotrasporto. Invece, abbiamo l’idea alquanto teorica che il treno possa sostituire tutte le altre modalità di trasporto. Sotto i 200 km, il treno o, non me ne si voglia, la bicicletta, non possono certo rappresentare un’alternativa al camion.

 

Più che sui porti, e sul lato mare, occorre sviluppare una strategia nazionale sul lato terra…

Parenti: È così. Il problema principale, oggi, è quello di riuscire a favorire il tempestivo trasferimento della merce dal retroterra alla banchina e viceversa. Non credo che aumentando solo la mera capacità di banchina si incrementino in maniera significativa ulteriori traffici rispetto a quelli esistenti. Con la realizzazione della Darsena Europa stiamo creando un sistema infrastrutturale che va da Livorno a Vado Ligure e che sarà in grado di intercettare anche oltre il 70% dei container movimentati a livello nazionale. In sostanza, i flussi di traffico container verranno dirottati verso il quadrante nord-ovest. Forse sarebbe stato più utile investire in maniera più evidente nell’ultimo miglio, nella risoluzione dei coli di bottiglia, nella velocizzazione delle pratiche amministrative, nel potenziamento concreto del servizio doganale e nei collegamenti retroportuali e con gli interporti. La verità è che abbiamo bisogno di infrastrutture connettive materiali ed immateriali. Il futuro è nella connessione.

Duci: In fondo, non siamo ancora in grado di sviluppare una visione integrata di sistema. C’è un problema di Governance. Non esiste una politica trasportistica degna di tale nome che consideri la logistica legata all’industria ed al commercio. A differenza di altri paesi, non abbiamo un campione nazionale.

La Germania la Francia, la Cina, hanno una strategia governativa chiara e precisa sulla logistica nazionale. Società come DHL, Hapag Lloyd, Cma Cgm, Cosco, o PSA (Singapore) sono oggi delle vere e proprie multinazionali che i Paesi di appartenenza possono usare come leva, o quantomeno come riserva di ultima istanza, per il controllo degli approvvigionamenti a livello globale e quindi, anche, per lo sviluppo della propria industria nazionale quando se ne prospetti la necessità.

La pandemia e la guerra in Ucraina dimostrano come sia pericoloso non avere alternative negli approvvigionamenti e nella distribuzione. Il crescente interesse degli Svizzeri per la portualità italiana credo nasca da questa consapevolezza. Nel mondo della Globalizzazione 2.0 o Slowbalization (o come la si voglia chiamare), la prima industria svizzera, la chimica, inizia a rendersi conto che affidare la propria distribuzione in esclusiva a porti e partner logistici tedeschi e belgi, paesi che sono i suoi principali concorrenti, possa essere un rischio in caso di crisi.

Parenti: il discorso non fa una grinza e può essere declinato anche ad altri contesti, sempre connessi alla logistica portuale. In Italia, ad esempio, abbiamo una grande eccellenza: Fincantieri. Se non cominciamo a discutere con Bruxelles un diverso approccio sulla norma in materia di aiuti di stato, rischiamo di perdere anche quella realtà. La competitività con i cantieri sudcoreani e soprattutto cinesi si fa sentire. Già oggi, i cinesi sono i primi produttori di navi al mondo, mentre Fincantieri ha saputo difendersi focalizzando il proprio core business nel settore della crocieristica e delle navi militari. Se continuiamo così senza intervenire, tra 15 anni, rischiamo di far sparire uno dei nostri gioielli ovvero asset strategico.

In mancanza di un campione nazionale, in mancanza di una regia sulla politica dei trasporti, c’è da chiedersi se non convenga ridefinire il modello di Governance del Sistema Portuale italiano. Duci propone ad esempio un modello di gestione multilivello dei porti, diversificato sulla base delle specificità di ciascun sistema…

Duci: la domanda che dobbiamo porci è questa: a che cosa servono i porti in Italia? Se li consideriamo per quello che sono oggi, hub locali al servizio di economie regionali, allora non potremo mai movimentare più degli 11 milioni di TEU previsti. Se, invece, pensiamo che pochi determinati porti possano svolgere una funzione diversa, che è quella di traguardare catchment area più ampie, allora potrebbe avere senso promulgare una legge speciale a sostegno della internazionalizzazione della logistica italiana. In poche parole: scegliamo pochi porti, pochi interporti e uno, al massimo, due aeroporti, e diamo a questi soggetti strumenti specifici per raggiungere i mercati internazionali.

Penso alla possibilità di avere degli advisory board più vicini ai mercati di queste realtà. A Trieste credo sarebbe utile che nell’organo se non di governance, almeno di consulta, sedesse, ad esempio, un rappresentante del governo austriaco. A Genova, sarebbe di grande aiuto avere all’interno rappresentanti del Governo svizzero e almeno delle Regioni Lombardia e Piemonte, per indirizzare determinate politiche di sviluppo commerciale. Nel vecchio e tanto vituperato Consorzio Autonomo del Porto di Genova, la città di Milano aveva un suo esponente.

Un’altra misura da pensare potrebbe essere quella di consentire a queste realtà di acquisire partecipazioni strategiche in interporti ed in infrastrutture logistiche straniere o italiane.

Parenti: Sono parzialmente d’accordo. I poteri delle AdSP vanno ampliati, nel rispetto dell’attuale status giuridico di Ente Pubblico non economico. Trovo però del tutto sbagliato che a goderne debbano essere soltanto alcuni scali portuali. Il messaggio è: correggiamo le disfunzioni e precisiamo gli strumenti, permettendo a tutti i porti di poter giocare con le stesse regole e, poi, chi ha più filo da tessere lo tessa. La soluzione prospettata da Duci, invece, porta diritti al federalismo portuale e, dal mio punto di vista, non penso sia quella la soluzione.

D’altronde, ha ragione Sommariva quando afferma che la Riforma del governance portuale “Delrio” avrebbe necessitato dell’ulteriore riforma dell’art. 117 della Costituzione. Per completezza, risulterebbe necessario sottrarre la materia dei porti alla potestà concorrente Stato-Regioni e consentire al Governo e, in particolare, al Ministero delle Infrastrutture, di esercitare quelle leve di coordinamento che la 84/94 gli ha attribuito. Le grandi potenzialità della legge portuale non sono mai state espresse fino in fondo. Bisognerebbe oggi ragionare sulla possibilità di apportare qualche accorgimento, per permettere quanto meno alle AdSP di avere partecipazioni in attività logistiche, in funzione anche degli obiettivi definiti da Duci.

Duci: in un mondo ideale sarei d’accordo con Parenti. Nella realtà concreta, ti troverai sempre davanti al politico locale di turno che propone di realizzare un porto da 5 miliardi di investimento  e 16 milioni di Teus in un’area priva di vocazione logistica (il riferimento al progetto Eurispes del 2018 a suo tempo supportato dall’On.le Micciché è evidente). Siamo tenuti in ostaggio dai campanilismi. Io faccio sempre un ragionamento di geografia economica: non sono a favore del federalismo, paradossalmente vorrei dare allo Stato il potere di pianificare su basi geoeconomiche quali porti, aeroporti e interporti, possano o debbano sviluppare strategie di politica industriale non prettamente regionale. Però, sono consapevole del fatto che, almeno per il momento, non ci sia la volontà di mettere mano alla 84/94.

 

La vertenza aperta con Bruxelles in materia di aiuti di Stato e tassazione delle AdSP, potrebbe però fare da detonatore del cambiamento…Che ne pensate?

Parenti: La posizione dell’Europa è chiara, da tempo. Le istituzioni comunitarie sono perfettamente consapevoli del ruolo pubblicistico che svolgono le nostre autorità di sistema portuale e non hanno a tal riguardo, alcuna obiezione da muovere. Quello che ci contestano, sbagliando dalla mia prospettiva, è che nell’incamerare i canoni demaniali, tali Enti svolgano attività economica di impresa a prescindere dalla loro forma giuridica. Purtroppo, si sarebbe dovuto avviare, sin dal 2013, un serio e determinato confronto con la Commissione UE e, segnatamente, con la DG Competition. Comunque, se oggi dovessimo soccombere in sede di Giustizia europea, dovremmo comunque essere in condizione di risolvere questa impasse, introducendo un nuovo regime di doppia contabilità.

Duci: sulla vicenda, il Governo e Assoporti hanno una evidente responsabilità. Per anni non abbiamo partecipato alle discussioni in corso a Bruxelles. A differenza, ad esempio, della Spagna abbiamo preferito andare al muro contro muro, rinunciando, in questo modo, a valutare con l’Europa che cosa debba essere ricompreso tra le attività di impresa soggetta a tassazione. Il risultato? Oggi non soltanto i canoni demaniali ma anche le tasse portuali rischiano di essere considerate un ricavo. Se in Corte passasse questa impostazione, le conseguenze sarebbero dirompenti per il sistema italiano e forse non più gestibili con la semplice doppia contabilità (cosa che invece sarebbe stata piuttosto agevole negoziando sui canoni).

 

Mentre l’interminabile partita a poker con la Commissione Europea sul tema della compatibilità tra gli aiuti di stato e il finanziamento alle infrastrutture portuali non pare essere ancora giunta agli ultimi giri di carte, in Italia qualcosa si sta muovendo, perlomeno sul fronte del tanto atteso regolamento sulle concessioni, atteso da tempo

Parenti: è sicuramente un fatto positivo che dopo 28 anni il Ministero delle Infrastrutture abbia presentato in sede di Conferenza Nazionale delle AdSP un draft. La storia di questo regolamento è molto travagliata. Il Ministero ha più volte provato a emanarlo, senza però mai riuscirci. Forse, gli è sempre mancato il supporto della politica. E, sempre forse, a qualcuno faceva comodo che ogni porto gestisse le concessioni secondo le proprie peculiarità. Ma negli ultimi tempi, anche grazie ai vincoli del PNRR, si è avuta una grande accelerazione.

Il testo presenta degli spunti interessanti. Ma ci sono anche delle criticità. I canoni, ad esempio e anche a detta di molti Presidenti, dovrebbero forse essere ricalcolati al rialzo.

Poi, sarebbe opportuno pensare alla possibilità di inserire nel regolamento una clausola a garanzia dei lavoratori. Penso ad esempio a quello che è successo a Gioia Tauro, a Taranto e per ultimo a Cagliari: la decisione del terminalista di interrompere il rapporto concessorio, lasciando a terra senza lavoro migliaia di persone, ha costretto lo Stato a creare, con soldi pubblici, agenzie per il lavoro in porto, pseudo art.17, cui conferire il personale lasciato a casa dalle decisioni prettamente gestionali, finanziarie di un terminalista. Occorrerebbe, pertanto, prevedere nel rapporto concessorio il pagamento di una garanzia fideiussoria in forza della quale indennizzare il personale licenziato.

Al di fuori del tema specifico del Regolamento concessioni, e nelle realtà dove non è presente, gioverebbe prevedere anche un vero soggetto somministratore, ex art.17, in funzione di una sana, efficiente e flessibile regolazione del mercato portuale.

Duci: Il Ministero ha tirato fuori dal cassetto il regolamento perché costretto dagli eventi, spinto in qualche modo dalla necessità di proteggere il proprio ruolo. I motivi per farlo sono molteplici: stiamo di fatto assistendo al moltiplicarsi dei tentativi di deprivare il MIMS delle proprie competenze. Va in questa direzione il ddl Concorrenza, nelle cui disposizioni originarie è prevista la soppressione di un pezzo importante del comma 1 dell’art.18, quello che attribuisce al Ministero competente la responsabilità di redigere il regolamento sulle concessioni. Vanno inoltre in questa direzione alcuni interventi dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti, che, nel cercare di meglio definire il proprio ruolo, a volte è sembrata sovrapporsi al Ministero.

Credo che si possa concordare con Parenti sulla necessità di introdurre una qualche forma di garanzia per i lavoratori portuali che rimangano senza lavoro a causa dell’interruzione del rapporto concessorio. Non so se la fideiussione da parte del singolo concessionario sia lo strumento più idoneo, perché temo rischi di limitare oltre il necessario l’accesso alle gare per le concessioni da parte dei player più piccoli. Penso, invece, ad esempio, ad una soluzione di categoria, nella forma di un fondo specifico gestito dal Ministero, o di una polizza assicurativa cumulativa, da alimentare tramite una componente dei canoni di concessione.

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