Focus

Nuovi orizzonti

Il virus cinese che dà lezioni all’Europa

di Fabio Massimo Parenti

Professore associato di Geografia e docente di Global Financial Markets, Globalization and Social Change, China’s Development e War and Media presso l’International Institute Lorenzo de’ Medici di Firenze

Stretta sui movimenti di persone a livello internazionale e nazionale, regolamentazioni di distanziamento sociale, quarantena imposta e volontaria. Il mondo non si è fermato ma certamente ha rallentato il flusso degli scambi, in alcuni casi fino al punto di annullarli. Tutti i settori economici stanno subendo le conseguenze di queste misure anti-covid-19, in particolare i servizi, quindi anche le attività portuali.

Abbiamo proiezioni e stime diverse sull’impatto economico della pandemia ed è difficile prevedere quando e con quali contraccolpi si tornerà alla normalità. In Italia e in gran parte dei Paesi occidentali ci siamo fatti trovare impreparati di fronte ad un evento pandemico a lungo preannunciato e manifestatosi inizialmente in Cina.

Rinomati giornali e riviste internazionali hanno dovuto constatare come l’Occidente non abbia saputo far tesoro dell’unica esperienza empirica disponibile, quella in Estremo Oriente, che avrebbe potuto fornire moltissimi elementi per prevenire e contenere in anticipo l’espansione dell’epidemia.

Nel frattempo, la politicizzazione di questo virus, tramite la sua etnicizzazione, ha costituito un’ aggravante. La frase più eloquente, emblema di questa partita giocata in modo sleale e disumano, è stata quella di Mike Pompeo, Segretario di Stato degli Stati Uniti, che il 30 gennaio scorso ha definito la Cina e il partito comunista “la più grande minaccia per l’umanità”.

La posizione critica di Washington nei confronti della BRI è ben nota. Gli USA hanno fatto tutto il possibile per contenere il consenso internazionale emerso intorno alle iniziative cinesi. Purtroppo quella di Pompeo non è stata una voce isolata e le critiche contro il sistema politico cinese sono giunte da più parti.

In questo frangente, non pochi si stanno chiedendo, correttamente, che fine farà la Via della Seta: il progetto, basato sull’accrescimento delle interconnessioni viarie e ferroviarie, pare aver subito un rallentamento non solo a causa della crisi economica innescata dal Covid-19 ma anche in ragione della diffidenza che diversi Stati europei hanno espresso nei confronti della cosiddetta Debt-Trap Diplomacy.

Per molti detrattori, infatti, la Belt and Road Initiative fornirebbe una copertura a una vera e propria strategia di dominio: indebitare i Paesi coinvolti attraverso la concessione di prestiti finalizzati alla realizzazione delle infrastrutture, e assumere poi il controllo di queste ultime.

In realtà tali accuse sono prive di fondamento. Non solo gli investimenti cinesi non sono legati a condizionalità politiche (come nel caso delle politiche neoliberali), ma la maggior parte dei paesi che vengono considerati particolarmente vulnerabili non vedono nei nuovi progetti di investimento, e nei nuovi prestiti cinesi, la fonte principale di indebitamento con l’estero.

A dispetto, comunque, di ogni paura o pregiudizio, negli ultimi sette anni l’iniziativa ha mantenuto e ampliato il numero dei paesi e delle organizzazioni aderenti, dimostrando la sua tenuta complessiva, sia in termini di consenso che di forza d’attrazione. Una tenuta che depone a favore di una veloce ripartenza dei progetti infrastrutturali, che appaiono difficilmente accantonabili nonostante la Pandemia.

La BRI è dotata di flessibilità e ha una grande capacità di adattamento.  Non è un caso che non vi siano piani dettagliati di investimento ma solo linee guida da adattare di volta in volta alle esigenze riscontrate sul terreno, e ai processi di negoziazione tra contesti culturali e politici spesso molto differenti.

Nell’evoluzione di questo giovane progetto riscontriamo almeno due fasi. Dopo aver inizialmente focalizzato la propria attenzione sulle infrastrutture di trasporto e sui servizi energetici (che coprono per il 70% le risorse messe a disposizione della BRI), da due anni a questa parte Pechino ha deciso di puntare sulla qualità degli investimenti,  sulle telecomunicazioni e sui processi innovativi determinabili da una maggiore cooperazione. Inoltre, c’è l’intenzione di rafforzare i rapporti con i paesi più avanzati, come insegna il caso dell’Italia.

Oggi l’esigenza maggiore è quella della cooperazione sanitaria, in ambito di ricerca, trattamenti e scambio di informazioni. Per tale motivo Pechino ha adeguato il proprio approccio alla nuova realtà pandemica, parlando di “via della seta della salute” e agendo di conseguenza con la messa in opera di una rete di aiuti e di forniture mediche, non solo di beni, ma anche di medici e ricercatori. Sono moltissimi i paesi che hanno ricevuto assistenza dalla Cina, in modo fattuale ed efficace.

Nel frattempo, purtroppo, le maggiori potenze occidentali hanno subito l’evolversi degli eventi, mostrandosi deboli non solo nella risposta al virus, ma anche nella capacità di coordinamento e cooperazione internazionale. Anzi, sono emerse tensioni e chiusure piuttosto che aperture e inviti al sostegno reciproco. Questo esito macroscopico della pandemia non può essere sottaciuto o censurato ed infatti la legittimazione internazionale della Cina sta aumentando anche in Occidente (secondo diversi sondaggi).

Globalizzazioni a confronto
L’evoluzione di questa crisi e le diverse risposte a essa fornite hanno palesato l’emersione di dinamiche di fondo già in movimento da alcuni decenni, di cui la via della seta rappresenta chiaramente un tassello relativamente nuovo. Proprio alla BRI si è associata una sorta di “nuova globalizzazione”  rispetto a quella che ci ha accompagnato dagli anni 70 e che è stata guidata dalla leadership occidentale, in modo particolare dagli Usa.

Mantenendo una prospettiva globale, l’attuale situazione emergenziale sta mettendo a nudo tutti i difetti e le debolezze strutturali accumulate dall’Occidente negli ultimi decenni. E’ sempre più evidente l’esaurimento della spinta propulsiva della globalizzazione occidentale, cui corrisponde, di converso, una chiara forza costruttiva della globalizzazione con caratteristiche cinesi.

Se la prima, sotto il cosiddetto Washington consensus, ha promosso per decenni processi di liberalizzazione e privatizzazione estesi al livello planetario, la seconda ha proposto e sta praticando le interconnessioni tra gli Stati, attraverso strategie di investimento e di cooperazione volte allo sviluppo di aree depresse, alla stabilizzazione di regioni strategiche e al collegamento più efficiente tra diverse regioni del mondo.

Una nuova era sta sorgendo e la Belt and Road Initiative si sta adattando alle esigenze di cooperazione internazionale per la gestione dei fattori di rischio e delle crisi globali.

È qualcosa di cui abbiamo bisogno, qualcosa che in Europa stiamo chiedendo a gran voce: la Bri può realmente contribuire alla costruzione di una comunità dal futuro condiviso.

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