Interventi

La necessità di una svolta nelle politiche trasportistiche del Paese

La portualità ritrovi la centralità che merita

di Alessandro Ferrari

Ho letto con interesse le riflessioni del collega del direttore generale di ANCIP, Gaudenzio Parenti, sviluppate in una intervista rilasciata al vostro giornale. Per quanto sia estremamente difficile fare previsioni in un contesto sempre più dinamico a livello geopolitico ed economico, ci sono dei dati incontrovertibili che non possiamo ignorare.

Uno di questi è che l’Europa è statica da ormai qualche decennio: demograficamente in decrescita e con un PIL 2023 tendenzialmente in linea al 2008.

I dati sui traffici da e per i nostri porti – indicatori economici da sempre veritieri per misurare lo stato dell’economia e dei consumi – ci dicono che il 2023 si è chiuso sotto i livelli del 2019 (pre- Covid) e che il prossimo triennio (per tenerci con un orizzonte temporale non troppo sfidante), oltre alle incognite che ben sottolinea Gaudenzio, sarà sicuramente viziato da fenomeni che non sono sotto il nostro controllo: assetti in medio oriente, politiche USA post elezioni, andamento dei mercati del Far East (Cina, Indonesia, india), la nuova “governance” dei BRICS e, non ultimo, il prossimo assetto della governance UE.

Gli assetti dei traffici merci internazionali sono sempre più appannaggio di concentrazioni di operatori dello shipping che hanno, giustamente, approfittato delle difficoltà della politica per accaparrarsi la gestione delle catene di approvvigionamento: il fenomeno delle concentrazioni nasce qualche decennio fa anche se le più variegate teorie degli economisti sul tema (ad esempio Williamson, O., The economic institutions of capitalism, New York 1985) partivano da analisi di singole industry, non di integrazione di segmenti di una filiera in origine diffusa.

Le direttrici dei traffici sono tendenzialmente “guidate” dal rapporto domanda e offerta: la merce va dove l’industria ne ha necessità e dove la distribuzione è in grado di gestirla.

Ciò premesso è evidente che circostanze esogene come quelle che abbiamo vissuto negli ultimi anni (il Covid prima, i conflitti poi) stanno condizionando forzosamente le scelte operative delle compagnie di navigazione e, di conseguenza, gli assetti distributivi delle merci.

E’ pur vero che i traffici da e verso il nostro Paese sono funzionali per la quasi totalità al mercato interno e che pertanto è al momento difficile percepire le ricadute nel breve termine sulla nostra portualità e sulla catena logistica ad esso correlata. Ma è anche vero che le politiche trasportistiche europee degli ultimi anni sono risultate contraddittorie: da una parte si è teso a investire in infrastrutture a rischio di sovracapacità e quindi di impoverimento degli asset, dall’altra si è, direttamente o indirettamente, minata la competitività dei sistemi portuali, specie di quelli della sponda europea del Mediterraneo, con misure discutibili (come quella sulla estensione al settore dello shipping del sistema europeo di scambio di quote di emissioni nel trasporto o quella sulla gestione di alcuni aspetti doganali).

Quello che stiamo rilevando oggi, ma è presto per un’analisi compiuta, sono ritardi dovuti ai blank sailing (già però in buona parte prevedibili) e alla riprogrammazione di alcuni viaggi, nonché alcune cancellazioni dell’ultima ora che impattano anche sulla capacità organizzativa (turni di lavoro) e di gestione degli spazi in banchina (con conseguenti potenziali rischi di congestionamento).

Un cortocircuito perfetto! Quello che rischia di avvenire per il nostro settore va oltre i temi della portualità: sarebbe miope continuare a ragionare per silos produttivi o operativi e pertanto andrebbe segnalato alla politica che il problema investe e investirà sempre di più il sistema trasportistico e logistico soprattutto del nostro Paese. Che, oggi ancora più di ieri, avrebbe bisogno di una buona iniezione di efficienza più che di cemento (o calcestruzzo, come si intendeva un tempo) per mantenersi competitivo.

Ovvio che le ricadute potenziali sul costo finale dei prodotti potrebbero essere rilevanti, anche se in modo diversificato per l’Europa, a seconda dei distretti di produzione e di distribuzione più o meno colpiti (si veda quanto costa all’Italia la crisi di Suez e quali siano i rischi sull’export, per i quali sono in ballo scambi per 154 miliardi di euro). In questa direzione credo bene abbia fatto il Presidente di Federagenti, Alessandro Santi, a richiamarsi alla necessità per il nostro Paese di recuperare una maggiore centralità geopolitica nel Mediterraneo e nelle relazioni economiche e diplomatiche con l’Africa e il Medio Oriente.

Al di là di qualche ipotesi di misura compensativa (penso alla norma del dl 34/20, art.199 che potrebbe essere riproposta nella sua interezza, come giustamente auspichiamo per le imprese e le compagnie portuali), credo che il tema da affrontare sia di natura squisitamente politica.

A questo proposito, è diventata centrale la questione della riforma della governance, anche alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia, che qualifica come entrate commerciali i canoni di concessione e le tasse portuali, mantenendo invece come entrate pubblicistiche i canoni di autorizzazione ex art. 16 l. 84/94. Occorre chiaramente efficientare il Sistema. Da questo punto di vista sarà determinante capire chi sarà il regolatore e chi invece dovrà occuparsi dello sviluppo competitivo dei nostri porti.

Si potrebbe obiettare che non ci siano connessioni tra la geopolitica e il demanio. Io ritengo invece che tutto si tenga e che le connessioni ci sono.