© Luigi Angelica
Interventi

Vicenda Anac-D'Agostino

Qualcosa non va

di Massimo Provinciali

Segretario generale dell’AdSP del Mar Tirreno Settentrionale

Ci sono cose che non capisco. Come riesce a volare il calabrone? Come fa il dentifricio a uscire a strisce dal tubetto? Perché un giovane laureato dovrebbe essere attratto dall’idea di entrare nella pubblica amministrazione, sperando che una brillante carriera lo porti ad alti livelli di responsabilità?

Prendo spunto dalla vicenda relativa alla dichiarazione di nullità della nomina di Zeno D’Agostino (a cui ovviamente vanno tutto il mio apprezzamento e la mia solidarietà), a Presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mar Adriatico Orientale, recentemente pronunciata dall’ANAC, per cercare un po’ di comprensione per la categoria alla quale appartengo da 32 anni, sia da parte dei colleghi sia da parte di chi, all’interno della burocrazia, o meglio, del management pubblico, è utente. Questo caso ci porta al di là del giudizio sul singolo provvedimento e chi se la prendesse solo con i funzionari ANAC finirebbe per guardare il dito e non la luna.

Si parla spesso, e giustamente, di lotta alla burocrazia, ma qualcuno si domanda quanto il burocrate stesso, quello sano, moderno, innovatore, sia schiavo e vittima delle regole e dei cavilli che incontra sul suo cammino? Fare Pubblica Amministrazione, in senso lato, è diventato non solo un percorso ad ostacoli degno del più complicato videogame, ma anche un mestiere rischioso nel quale decidere vuol dire esporsi spesso e volentieri ad accuse di faziosità. Al contrario, chi non decide viene accusato di immobilismo. Chi esercita questa professione finisce in una giungla di norme e paletti che non ammettono distrazioni.

Tra poche settimane, festeggiamo i 30 anni della legge n.241 del 1990, una legge simbolo che ha cambiato radicalmente sia l’approccio della Pubblica Amministrazione che quello verso la Pubblica Amministrazione: tempi certi per la conclusione dei procedimenti, conferenze di servizi, autocertificazioni, silenzio-assenso, accesso agli atti, tutti istituti che hanno faticato tantissimo ad imporsi e che ancora oggi suonano strani ad alcuni orecchi, ma che dovevano forgiare pubblici amministratori rapidi nel pensiero e nell’azione, trasparenti e – concetto che a me piace moltissimo – ispirati a una idea di amministrazione partecipata, dove il confronto con l’utente sia trasparente e costruttivo.

La cassetta degli attrezzi che ci veniva data per esercitare questo mestiere era fatta di poche regole: competenza, imparzialità, trasparenza, discrezionalità (perché ogni caso è diverso dall’altro), bilanciata da un rafforzato onere di motivazione dei provvedimenti adottati. Questa cassetta degli attrezzi avrebbe dovuto essere la via indiretta per arrivare finalmente anche all’applicazione di un principio darwiniano di cui tutti si riempiono la bocca: la meritocrazia. I funzionari più bravi (e quindi da premiare) sarebbero risultati quelli più competenti, quelli più pronti a recepire le innovazioni, quelli che si prendono la responsabilità di assumere decisioni, motivandole congruamente. Insomma, per valutare un pubblico amministratore si sarebbe dovuto guardare ai “fatti”.

Poi è successo qualcosa. La lotta alla corruzione è diventata prioritaria rispetto alla costruzione di una PA efficiente ed efficace.  Ora, figuratevi se mi passa anche solo di sfuggita per l’anticamera del cervello, l’idea di sottovalutare il fenomeno corruttivo; da funzionario onesto, vorrei che i miei colleghi disonesti e i privati che li corrompono fossero spogliati di tutto il loro patrimonio e costretti a servire alla mensa dei poveri fino alla fine dei loro giorni. Ma siamo sicuri che gli strumenti messi in campo siano quelli giusti ed efficaci? Qualcuno ne ha calcolato il rapporto costi/benefici?

Ricapitoliamo.  Si è pensato che infarcire il Codice degli appalti di condizioni, preclusioni, certificazioni che scadono più velocemente dello yogurt, e di divieti incrociati, tenesse fuori la criminalità organizzata e la corruzione dalle realizzazione delle opere, piccole e grandi. È stato così? Non mi pare. E nelle migliori delle ipotesi, l’obiettivo è stato raggiunto a costo di allungare i tempi di realizzazione di un’opera, tempi che sono diventati biblici, anche solo per realizzare un chilometro di strada. Vorrei ricordare che è stato emblematicamente sottolineato come la velocità di realizzazione del Nuovo Ponte Morandi a Genova sia stata possibile solo bypassando paradossalmente le procedure ordinarie.

Si è pensato che istituire un’Autorità anticorruzione avrebbe debellato questo malaffare. Ma non c’era già un’autorità che perseguiva la corruzione? Non era forse la Procura della Repubblica? Ma, si dice, i tempi della giustizia sono lunghi. Il primo round della vicenda relativa al Presidente D’Agostino si è concluso a tre mesi dalla scadenza del suo mandato quadriennale. Qualcuno me ne spiega l’utilità, anche dal punto di vista dei fini per cui è nata ANAC?

Si è ritenuto che per debellare la corruzione uno strumento utile fosse togliere dalla famosa cassetta degli attrezzi la discrezionalità e quindi infarcire il procedimento amministrativo di parametri e pesi specifici (magari, nel nostro mondo, da parte di un’ulteriore autorità come l’ART, con poche competenze specifiche nel settore), in modo da “oggettivizzarlo” (che brutta parola…).

A questa cosa in particolare non ho mai creduto, perché continuo a ritenere che non siano oggettivizzabili tutte le condizioni di contesto, che pure hanno un rilievo sostanziale al momento di prendere una decisione: non sono mai riuscito a capire come si possa chiedere a un insegnante di rendere conto in maniera “oggettiva” del perché a una interrogazione dia 7 anziché 8; o come un giudice possa “oggettivizzare la scelta della pena irrogata tra il minimo e il massimo edittale. Ma, come ho avuto occasione di dire in un recente passato, se al pubblico amministratore tolgono la discrezionalità, il prossimo passo è sostituirlo con un algoritmo.

Dato questo quadro, è chiaro che il Dirigente pubblico (in senso lato) o ha paura di decidere o si sente frustrato, fino magari a dubitare della propria adeguatezza e aggrapparsi a pareri e perizie prima di prendere una decisione.

Uno dei miei primi provvedimenti da Direttore generale dei porti fu l’impegno di 1.500 miliardi di lire della legge n.413 del 1998 a beneficio delle Autorità Portuali. L’unica telefonata che feci fu al mio predecessore, l’affezionatissimo Gaspare Ciliberti, per comunicargli la mia emozione. Oggi vorrei il parere di tre advisor indipendenti e di sicuro non chiederei mai un pur trasparentissimo mutuo alla banca che si aggiudicò il finanziamento dell’operazione.

Dove voglio andare a parare con questo discorso, sia pure confuso perché emotivamente molto sentito? Voglio arrivare a dire che ci siamo infilati in un clima da caccia alle streghe, inquisitorio, dove in Italia, culla del diritto e delle garanzie, si sta progressivamente abbandonando l’idea di giudicare, nel bene e nel male, i “comportamenti concreti”, scegliendo la supposta scorciatoia della sanzione preventiva per le “condizioni ipotetiche e potenziali”.

Lo ha detto a voce alta Luca Becce, non a caso nella sua qualità di Presidente di Assiterminal, quindi da utente della Pubblica Amministrazione: i casi giudiziari o paragiudiziari che in questi ultimi anni hanno coinvolto alcuni vertici di Autorità di Sistema Portuale (tra i quali, lo ricordo per onestà intellettuale, c’è anche il mio personale), non hanno in nessuno caso comportato accuse di corruzione ma vertono su modalità di esercizio della funzione pubblica, spesso svolta con ottimi risultati dal punto di vista del core business della portualità.

Dell’ottimo Zeno D’Agostino è stata dichiarata (ripeto, a tre mesi dalla fine del mandato, quindi con tempi del tutto inefficaci rispetto allo spirito della norma applicata), l’inconferibilità dell’incarico di Presidente perché la norma applicata presume un potenziale conflitto di interesse tra le due cariche ricoperte. Ecco, io sono stanco di vivere in un Paese dove si mortificano e, tafazzianamente, si rinuncia a usufruire di qualificate professionalità perché si “presume” che Tizio in una data condizione “potrebbe” agevolare o penalizzare chicchessia.

Presunzioni, ipotesi, verbi al condizionale… No, grazie! Voglio esercitare la mia funzione in una situazione in cui sarò valutato per le decisioni che prendo, per i risultati che porto alla collettività e se scadenti o fraudolenti, essere cacciato a pedate dal consesso civile, ma dopo essere stato messo in condizione di lavorare con serenità e responsabilità.

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