Porto Livorno; project cargo
© Fausto Pianigiani
Interventi

Incentivi fiscali e semplificazione burocratica

Le ZES vadano in porto per sbloccare lo sviluppo

di Alessandro Panaro

Capo Dipartimento “Economia Marittima”, SRM (Gruppo Intesa Sanpaolo)

Il Mediterraneo sta mostrando negli ultimi anni una grande dinamicità. Sulla base delle analisi effettuate dal Centro Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (SRM), del Gruppo Intesa San Paolo, dal 2012 a oggi la presenza di navi nel Mare Nostrum è aumentata del 24% (27% se consideriamo solo le megaship, cioè quelle con capacità maggiore di 13.000 TEU). Inoltre, il Canale di Suez ha registrato nel 2017 crescite record, chiudendo l’anno con oltre 900 milioni di tonnellate e 17.550 navi transitate (+11% sul 2016). Infine, negli ultimi vent’anni il traffico container è cresciuto di sei volte, oltrepassando la soglia dei 50 milioni di TEU.

I dati prefigurano per il nostro Paese un futuro ricco di opportunità. Grazie anche alla riforma Delrio, i porti italiani affrontano oggi le nuove sfide commerciali con una struttura normativa più definita (anche se con alcuni punti ancora da perfezionare) e hanno le carte in regola per rispondere in modo adeguato anche alla strategia di penetrazione cinese. La Belt & Road Initiative (BRI) sta di fatto creando una nuova Via della seta tra Far East ed Europa, valorizzando, tra l’altro, rotte tra il Vecchio Continente e il Nord Africa: in poco più di due anni Pechino ha investito oltre 3 miliardi di euro in otto porti (Haifa, Ashdod, Ambarli, Pireo, Rotterdam, Vado Ligure, Bilbao e Valencia) e potrebbe attivare investimenti importanti anche in Italia, che può giocare un ruolo importante per via della sua posizione strategica.

Per cogliere appieno questa opportunità è però necessario dare completo sviluppo a tutte quelle iniziative che favorendo un connubio tra industria e logistica mirino ad attrarre nuovi investimenti a ridosso delle aree portuali.

Soltanto recentemente siamo giunti a regolare la presenza di Zone Economiche Speciali (ZES) nelle aree portuali, creando i presupposti per istituire aree a sviluppo incentivato dal punto di vista del costo del lavoro e di quello fiscale, doganale, e soprattutto burocratico. Si tratta di una idea condivisibile in quanto per attirare imprese export e import oriented occorre un’infrastruttura marittima efficiente ed efficace.

Ad oggi sono stati fatti passi importanti con l’approvazione dei regolamenti di attuazione e dei piani di sviluppo di alcune Zone, tra cui quelle della Campania e della Calabria, ma manca ancora lo scatto decisivo poiché al credito di imposta – attualmente previsto per le imprese che investono – dovrebbero poi essere affiancati gli incentivi burocratico e doganali, che rappresentano l’humus per ‘nutrire’ l’imprenditore che lavora e commercia con l’estero.

A istituire queste ‘zone franche’ in ambito portuale l’Italia è arrivata tardi. In altri Paesi tali realtà esistono da tempo e hanno strutture consolidate con incentivi molto elevati e con capacità gestionali che offrono know-how storici in materia.

Tanger Med ha per esempio una ZES che produce 6 miliardi di export l’anno. 600 imprese nei settori dell’automotive, dell’agroalimentare e del tessile, operano al suo interno e possono beneficiare, oltre che di un grande porto internazionale dove sono presenti multinazionali del calibro di Eurogate e APM, anche di una serie di incentivi fiscali (come l’esenzione totale delle imposte per i primi cinque anni dall’insediamento). Non solo: con il Fondo Hassan II il Governo marocchino sovvenziona l’acquisizione da parte delle imprese di strutture immobiliari strumentali (come terreni e fabbricati relativi). L’investimento principe è stato quello della Renault ma l’elenco delle imprese è molto lungo e diversificato.

Altro esempio è quello di Port Said in Egitto, situato allo sbocco del Canale di Suez. La Suez Canal Economic Zone (SCZone) coinvolge quattro porti, due aree integrate e due aree di sviluppo tematico e concede anche forti incentivi doganali oltre che fiscali e burocratici.

Certo, i modelli egiziani e marocchini sono poco replicabili da noi, avendo questi Paesi una normativa più flessibile, minori costi del lavoro e sterminati spazi retroportuali. La Polonia rappresenta invece un case study interessante: pur non mettendo i porti al centro dello sviluppo economico del paese, le 14 ZES polacche rappresentano oggi un fattore di reale competitività per tutti quegli investitori stranieri che nel corso degli anni hanno potuto per altro contare sulle prospettive connesse agli ingenti fondi UE strutturali e di coesione assegnati a Varsavia.

In ritardo o no, l’importante è che l’Italia abbia corretto un’anomalia dotandosi, al pari di altri Paesi europei, di questi preziosi strumenti di promozione territoriale. Il sistema imprenditoriale e istituzionale del Paese ci crede ed è alto l’interesse delle imprese italiane ed estere.

Non è un caso che il Banco di Napoli del Gruppo Intesa Sanpaolo abbia previsto un plafond creditizio di 1,5 miliardi di euro per i soggetti interessati a investire nelle ZES e abbia anche promosso recentemente incontri mirati, a Napoli e Milano, per mostrare le opportunità che la ZES in Campania può rappresentare per gli investitori.

L’impatto economico di queste aree può essere misurato da vari indicatori. Da elaborazioni effettuate su un panel di ZES mondiali è emerso che una volta a regime – cioè in un arco temporale tra i sette e i dieci anni – queste zone potranno arrivare a incrementare le esportazioni di un territorio fino al 40%. Se applicassimo questa performance di crescita agli attuali volumi di export del nostro Mezzogiorno, nell’arco di un decennio si potrebbe attivare export aggiuntivo pari a circa 18 miliardi di euro.

Un altro indicatore rilevante è il traffico container, che – dati SRM alla mano – nei porti del Mediterraneo dotati di ZES è cresciuto a ritmi esponenziali: +8,4% negli ultimi dieci anni, contro un ben più modesto +1% fatto registrate dagli scali italiani. Anche in questo caso, se applicassimo tale percentuale di incremento ai porti meridionali, che attualmente movimentano il 40% del traffico container italiano (circa 4 milioni di TEU), in dieci anni potremmo aumentare il volume fino ad arrivare a 7,4 milioni di TEU. A questo incremento si assommerebbero anche i conseguenti impatti positivi relativi all’eventuale lavorazione logistica a valore aggiunto.

Al di là delle stime, le ZES sono oggi sempre più necessarie, soprattutto per i nostri scali che si trovano davanti a scenari in cui la portualità di molti Paesi MENA (Middle East & North Africa) ha alle sue spalle Zone Speciali con pacchetti localizzativi invidiabili. Senza questo strumento rischieremmo a questo punto di perdere competitività e di non cogliere appieno quelle opportunità che il Mediterraneo sta offrendo.

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