© Luigi Angelica
Interviste

Colloquio con Ivano Russo

L’ultimo treno delle riforme

di Marco Casale

Sottrarre la gestione dei porti e delle infrastrutture di rilevanza nazionale alla competenza legislativa concorrente tra Stato, Regioni ed Enti locali. Per il direttore generale di Confetra, Ivano Russo, la risoluzione dei problemi attuali della portualità italiana passa in buona parte dalla riforma del Titolo V della Costituzione.

«Una rotta alternativa non è immaginabile, se davvero si ha intenzione di rendere efficienti i modelli di governance degli scali marittimi» riflette Russo, la cui analisi prende avvio dalle vicende che hanno recentemente coinvolto i presidenti di due Autorità Portuali: Zeno D’Agostino a Trieste, Pino Musolino a Venezia.

In particolare, la bocciatura del bilancio consuntivo dell’AdSP del Mar Adriatico Settentrionale ha riaperto il dibattito sulla funzionalità dei Comitati di gestione  delle Port Authority. «Il dlgs 169 del 2016 ha permesso alla nostra portualità di compiere un notevole passo in avanti. I vecchi Comitati portuali, organismi pletorici e appesantiti dall’ombra permanente del conflitto di interesse, sono stati sostituiti con board più snelli, formati dal presidente dell’AdSP nonché da rappresentanti delegati dagli Enti locali e dotati per legge dello stesso livello di competenza e preparazione dei presidenti».

Tuttavia, sottolinea Russo, «nessuna norma può imporre la buona politica o la gestione della res publica». Lo spirito della Riforma Delrio è stato sostanzialmente disatteso fin dai primi giorni della sua entrata in vigore: «Per rendersene conto è sufficiente scorrere i nomi che compongono i nuovi Comitati di gestione: molti di loro non possiedono le competenze professionali richieste mentre altri si trovano in evidente conflitto di interessi. In alcuni casi vi siedono direttamente i sindaci delle città portuali: una forzatura evidente della norma».

A proposito del peso degli Enti locali nelle scelte delle diverse AdSP, Russo ci invita a rileggere gli atti del dibattito in Commissione Trasporti alla Camera e al Senato: «La battaglia sulla composizione dei Comitati di Gestione è stata lunga e faticosa. Il Governo ha dovuto respingere l’assalto dei sindaci delle città portuali… Tutti volevano fare parte di tali organi decisionali ma questo avrebbe significato trasformarli in assemblee territoriali dell’ANCI».

Considerata l’attuale architettura costituzionale, non poteva essere intrapresa altra strada riformatrice che quella prevista dal dlgs 169: «Ricordo che già nel 2015 Delrio aveva promosso una riforma più drastica, prevedendo 8 AdSP e meccanismi di governance molto più centralizzati. Tale iniziativa venne però impugnata dalla Regione Veneto e cassata successivamente dalla Corte Costituzionale. Proseguire nella stessa direzione sarebbe stato impossibile».

Oltre alla revisione del Titolo V, occorrerebbe anche lavorare per assicurare alle Autorità Portuali una maggiore agibilità operativa: «Dovremmo avere il coraggio di decidere che in ambito portuale si applicano soltanto i dettati normativi della legge 84/94. I porti dovrebbero insomma poter operare con proprie specifiche regole anche alla realizzazione di opere pubbliche, a prescindere dal Codice degli appalti e dalle normative ambientali».

D’altronde i sistemi portuali operano già secondo configurazioni normative speciali, con riferimento sia al lavoro portuale sia alle concessioni, le quali possono essere rilasciate anche prevedendo la possibilità della pubblicazione della istanza di parte: «In fondo si tratterebbe di estendere queste specificità anche a tutte le altre funzioni del porto. In questo modo i presidenti sarebbero chiamati a rispondere più direttamente del proprio operato».

Per Russo è arrivato il momento di imprimere alla nave dei porti italiani una virata che le consenta di prendere il mare aperto, senza ulteriori tentennamenti e senza cedere a facili scorciatoie. Il cosiddetto Modello Genova non è la panacea di tutti i mali: «Il Ponte Morandi è stato ricostruito con regole semplificate, particolari, anche perché l’opera preesisteva e i lavori di rifacimento erano ovviamente in capo al concessionario privato».

Le condizioni che hanno permesso la sua ricostruzione erano uniche e irripetibili: «È inimmaginabile pensare che in Italia si possa procedere strutturalmente in deroga al Codice degli appalti, senza indire le gare oppure senza passare dalla Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) e dalla quella ambientale strategica (VAS). Sarebbe una giungla».

Il direttore generale di Confetra invita a reagire, senza cedere al vittimismo patologico di cui paiono soffrire oggi molti amministratori pubblici: «Leggo di ipotetiche persecuzioni ai danni di presidenti di Autorità portuali. Non senza l’ausilio di una certa fervida fantasia, alcuni le giudicano nientemeno che parte di un complotto volto a indebolire i porti italiani. Alzino lo sguardo a orizzonti più larghi. Oggi la stragrande maggioranza dei presidenti di Regione e quasi tutti i sindaci di città metropolitane sono indagati o a processo per i reati più diversi. Purtroppo, in un quadro normativo tanto caotico e contraddittorio, chiunque sia amministrativamente sovraesposto rischia di incappare in procedimenti giudiziari».

Ma se da una parte è doveroso avviare un dibattito sull’applicazione «troppo estensiva» di certe fattispecie di reato (come l’abuso di ufficio), dall’altra occorre fare un ragionamento approfondito sui limiti che attualmente zavorrano i porti italiani. «I dati ANCE parlano chiaro: oggi per realizzare un’opera che abbia un valore superiore ai 100 milioni di euro ci vogliono in media 17 anni. Potremmo anche avere i migliori presidenti del mondo ma il risultato non cambierebbe. Ciò che zavorra l’Italia zavorra anche i porti».

Al fondo rimane una domanda ancora senza risposta: esiste la volontà politica di imprimere alla portualità italiana una reale svolta verso il cambiamento?

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