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Interventi

Se il mercato è contro di noi, peggio per lui

di Davide Santini

Avvocato marittimista

L’intervista a Sergio Prete, pubblicata su questa testata, costituisce il punto di partenza per una riflessione ad ampio spettro sulle dinamiche delle politiche portuali che hanno interessato il nostro Paese negli ultimi dieci anni.

È doveroso innanzitutto complimentarsi con il Presidente, che è riuscito prima ad attrarre e accumulare fondi pubblici per 500 milioni di euro e poi ad impiegarli effettivamente realizzando opere infrastrutturali nel Porto di Taranto.

Nonostante i poteri commissariali che spesso non hanno protetto gli stessi commissari da indagini e da critiche, gli ci è voluto tanto coraggio sul piano sia politico sia personale: un indubbio successo, anche alla luce dalla sostanziale paralisi della portualità italiana nella realizzazione di interventi infrastrutturali necessari, indispensabili ed indifferibili, che spesso diventano obsoleti ancor prima del completamento del loro iter autorizzativo.

Non si vedono in effetti tutti i giorni 500 milioni di euro investiti in otto anni in un porto che ha una previsione di entrate correnti per il 2020 pari a 4,5 milioni di euro, da rivedere probabilmente al ribasso in esito agli effetti della crisi COVID-19. Si tratta un investimento allo scoperto, che assomiglia alle operazioni short in finanza, miracolosamente salvato da un imprenditore straniero che prendendo possesso dello scalo pugliese al solo costo dell’investimento in equipment e del canone demaniale, propone un piano d’impresa basato su volumi di traffico corrispondenti al 40% circa del traffico consolidato in Italia negli almeno ultimi 10 anni.

Chi ha deciso di spendere 500 milioni di euro in un porto rifiutato dal mercato, da cui sono fuggite primarie compagnie a livello mondiale, lontano centinaia di chilometri dalle catchment-areas della merce e privo di collegamenti infrastrutturali efficienti, lo ha fatto convintamente nonostante gli esempi precedenti degli investimenti pubblici rivelatisi altrettanto fallimentari (anche se sotto diversi profili e con diverse modalità) negli scali di Augusta, Cagliari, Gioia Tauro e per certi versi Vado Ligure.

Ancora prima di valutare queste operazioni sotto il profilo del ROI  sperato (parrebbe un azzardo scrivere che sia stato previsto), sarebbe interessante poter leggere le analisi costi-benefici che hanno confortato gli ideatori di tale e altre simili iniziative. Queste sono infatti state sviluppate in un contesto in cui vengono esaminati nei minimi dettagli e giudicati con il massimo sospetto gli accordi sostitutivi di concessione demaniale con esecuzione di opere pubbliche infrastrutturali previsti nei piani regolatori e finanziati per intero da soggetti privati, imprenditori, compagnie nazionali ed estere.

Operazioni del genere sono state sottoposte a un processo inquisitorio preventivo, quasi si trattasse di operazioni illegittime e in violazione della normativa antitrust, dell’accesso al libero mercato, delle procedure ad evidenza pubblica e dei processi partecipativi. Sta di fatto che spesso e volentieri si sono concluse con un esito favorevole all’investitore in ragione della sua solidità economico-finanziaria e reputazionale.

La Spezia, Trieste e Genova hanno aperto la strada a procedure in precedenza inesplorate, che consentono l’intervento del privato laddove lo Stato non sia in grado di finanziare o realizzare le opere pubbliche previste negli strumenti di pianificazione territoriale generali e di dettaglio. Si tratta di procedure innovative e lungimiranti avversate in ogni modo – soprattutto sul piano politico – nonostante siano previste nel dettaglio da una normativa chiara se affrontata con competenza, buona fede e coraggio. Quest’ultima risulta invece complicata, rigida e involuta se affrontata al contrario con il timore dettato da colpevole ignoranza, pavidità o da mala fede (per esempio, l’art. 20 del Codice degli Appalti esclude espressamente l’applicabilità del medesimo testo qualora un’opera pubblica sia realizzata a spese del privato).

Se è lecito trarre qualche conclusione dalle riflessioni che precedono, la prima che balza agli occhi è lo scollamento tra la realtà dei traffici globali, dei mercati e delle relative tendenze e la capacità decisionale della struttura pubblica a ogni livello: dal più alto, che non decide le strategie pluriennali del sistema Paese pensando di poter influenzare o dirigere i mercati con tattiche di corto respiro invece di coglierne le opportunità, fino al livello degli uffici delle AdSP chiamati a esprimere valutazioni su complessi piani di investimento, progetti infrastrutturali e piani occupazionali.

La seconda è quella del fallimento del modello dello Stato imprenditore o investitore, spesso rivelatosi privo persino delle competenze previsionali e gestionali necessarie. Ed è abbastanza semplice immaginare lo sgomento dei vertici delle AdSP che ogni anno si trovano a dover affrontare tagli lineari su capitoli di spesa definiti un decennio prima.

Non è una situazione facile per chi opera in un mondo che fa dell’incertezza e della volatilità dei traffici la propria bandiera; un mondo di tagli lineari, che senza considerare le necessità delle diverse realtà portuali, favorisce chi si trova a ereditare la posizione di quanti nel 2009 spendevano e spandevano, penalizzando invece coloro che per capacità o per caso all’epoca spendevano poco ma che oggi avrebbero bisogno di maggiori risorse.

In questo panorama si inquadra la situazione di stasi di molti progetti, su cui si fondano accordi sostitutivi di concessioni ultradecennali. L’eccessiva burocratizzazione dei procedimenti amministrativi paralizza i nostri porti, e ciò accade proprio quando, sull’altra sponda del Mediterraneo, Eurogate e Contship Italia (entrambi afferenti a Eurokai, leader europeo tra i terminalisti) sottoscrivono un accordo per investire 750 milioni di euro nella realizzazione di un terminal container nel porto egiziano di Damietta.

Propongo un’ulteriore considerazione: nei giorni scorsi si sono moltiplicate le invocazioni di commissariamenti (“modello Genova” piuttosto che “modello Taranto” o chissà cos’altro) per gestire gli effetti dell’emergenza COVID-19. Da nessuna parte si è però letto di una strategia per affrontare l’emergenza ed il post-emergenza con l’intervento e il sostegno dello Stato: quella strategia che si declina in modifiche della pianificazione precedente, nello sviluppo di nuovi percorsi adeguati alla realtà, nell’assegnazione dei poteri esecutivi necessari e funzionali al raggiungimento dell’obiettivo pressoché immediato, evitando così la contraddizione del commissariamento strutturale.

Ma quel che più sgomenta è la mancanza, ormai consolidata negli anni, di una vera strategia del Paese in grado di rendere competitivo il sistema portuale e logistico nazionale, nella disperata speranza che lo stesso sistema sia sufficientemente forte e competitivo da sopravvivere nonostante lo Stato, bastando a sé stesso ed alle proprie esigenze.

Nella sua drammaticità la crisi derivante dall’emergenza COVID-19 può costituire un momento di discontinuità, in cui ci si ferma, si ragiona, si decide alla luce di dati e non di velleità e poi si parte con una strategia ponderata e proiettata sul futuro.

Il tempo impiegato non sarà tempo perso se utilizzato secondo il principio “slow is smooth, smooth is fast” e l’esecuzione dei piani strategici sarà semplicemente una conseguenza della buona progettazione invece di un’ennesima nuova avventura nell’ignoto.

La politica della carta commissariale da sola non è più credibile. Serve soltanto a riportare alla mente la celebre risposta che, nel film “I due Colonnelli”, il colonnello Di Maggio (impersonato superbamente da Totò) diede prontamente al maggiore tedesco Kruger circa il miglior utilizzo della cosiddetta “carta bianca”.

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