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Interventi

Discussioni estive sulla privatizzazione delle infrastrutture portuali

Riforma dei porti, una questione seria trasformata in farsa

di Pietro Spirito

Già Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale

Questa estate non sarà solo ricordata per la intensa canicola afosa, alternata con rari ed improvvisi temporali, caratterizzati da gradine con chicchi come palline dal golf. Stavolta, sul finire d’agosto, mentre ci si approssima al tempo per la presentazione della legge di stabilità per il 2024, un fantasma si è aggirato per qualche settimana nel dibattito pubblico nazionale: la privatizzazione dei porti.

La storia, come è noto, si presenta prima come tragedia, e poi come farsa. Nel nostro Paese, potremmo dire anche per fortuna, il primo tempo non viene mai giocato, e si passa decisamente al secondo, nel quale abbiamo assunto da decenni una specializzazione che riesce a declinare tutte le tonalità del repertorio.

Le danze sono state aperte dal Ministro degli affari esteri, Antonio Tajani, il quale ha dichiarato che è necessaria una nuova stagione di privatizzazioni, con particolare riferimento alle infrastrutture, cominciando dai porti. Il portavoce di Forza Italia, Raffaele Nevi, nel cercare di far planare la proposta verso un terreno di  concretezza, ha citato il caso del porto di Rapallo, derubricando un eventuale, e discutibile,  grande disegno strategico di cessione dei porti ai privati in una spigolatura da Settimana enigmistica sotto l’ombrellone, sempre per restare nel perimetro della metafora estiva.

Nonostante il carattere goliardico della discussione sinora impostata sul futuro dei porti, cerchiamo di mettere ordine nella questione, che pure costituisce una delle partite più rilevanti per l’assetto strategico del nostro Paese. La connettività marittima rappresenta uno dei pilastri principali per la competitività industriale e logistica dell’economia nazionale. Fughe in avanti, soprattutto poco argomentate ed analizzate, sono del tutto poco opportune.

Del resto, il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha archiviato le polemiche sulla privatizzazione dei porti, sostenendo che non si tratta di un argomento all’ordine del giorno. Resta però aperta, nonostante l’acerba natura delle argomentazioni svolte, la necessità di avviare una discussione sulle modalità attraverso le quali rilanciare la capacità di offerta di servizi di connettività da parte degli scali marittimi italiani.

Quell’impulso che era stato fornito dalla riforma del sistema portuale con la legge 84/94 si è progressivamente perduto nel corso del tempo, e – a distanza di ormai quasi trenta anni dalla approvazione di quella norma – si pone il tema di ridisegnare la governance degli scali marittimi.

Nel 2016 era stato realizzato un parziale accorpamento delle autorità portuali, per evitare la frammentazione localistica delle strategie, ma, come accade sempre nel nostro Paese, al coraggio del disegno originario,  che prevedeva  la costituzione di soli sei soggetti, segue il passo molle della controriforma, che ha dato vita a sedici istituzioni portuali, peraltro disegnate come enti pubblici non economici.

Il tentativo di riforma della governance portuale è stato alla fine un aborto, non solo per la debolezza del consolidamento molto parzialmente conseguito, ma anche per un profilo delle regole di funzionamento istituzionale, che hanno accentuato la debolezza operativa delle autorità di sistema portuale, confinate in via definitiva dentro le regole della pubblica amministrazione, con tutte le lentezze e le contraddizioni che si sono viste nel corso di questi anni.

Peraltro, questo disegno è entrato in rotta di collisione anche con le regole comunitarie, come dimostra il procedimento di infrazione avverso alla mancanza di tassazione per le autorità italiane di sistema portuale: un soggetto che opera una attività economica, gestendo le concessioni ed incassando i canoni, non può, secondo la Commissione Europea, essere esentato dalla applicazione delle regole per la fiscalità.

Che si debba mettere mano al disegno strategico dei porti italiani è questione che sta sul tavolo delle decisioni politiche ormai da qualche anno. Prendere l’abbrivio dalle uscite agostane è però particolarmente pericoloso. La privatizzazione delle infrastrutture strategiche, intesa come cessione della proprietà ai privati, ha un precedente in Europa, e riguarda lo Stato greco.

Tale decisione è stata assunta dalla Troika quale contropartita per sostenere con prestiti molti onerosi la drammatica crisi di credibilità del debito sovrano ellenico. Per la Grecia – e per la stessa Europa . è stato un grave errore grammaticale di geopolitica, in modo particolare per la cessione della proprietà del principale porto nazionale, il Pireo, ai cinesi di Cosco.

Per questa via, ai Cinesi è stato concesso un passaporto strategico di accesso marittimo al mercato europeo, senza alcuna reciprocità. Esistono alcune operazioni che non si possono misurare esclusivamente nella chiave della convenienza economica e finanziaria, perché la loro rilevanza strategica soverchia tutte le altre considerazioni.

Ora, onestamente, non risulta che l’Italia abbia già ceduto sovranità alla Troika, ed è singolare che la stessa maggioranza che non vuole firmare il trattato del MES, voglia, almeno nelle intenzioni di alcuni autorevoli esponenti, cedere la proprietà dei principali porti italiani al mercato, con il rischio, certamente non remoto, di trovarsi qualche altro Stato sovrano, magari disallineato rispetto alle strategie nazionali, al comando delle operazioni in uno dei gangli vitali delle infrastrutture e delle connessioni.

Oltretutto, il mercato marittimo si è configurato negli ultimi anni sempre più in forma oligopolistica, con una tendenza dei principali armatori mondiali a costituire conglomerati logistici, sia nella forma di concentrazione verticale, anche mediante la gestione di terminal e di servizi portuali come i rimorchiatori, sia nella forma di concentrazione orizzontale, entrando in altri segmenti della offerta trasportistica e logistica.

Proprio per questa caratteristica, non appare assolutamente opportuno dare spazio al mercato dei privati nella gestione degli scali portuali, perché l’ipotesi più probabile sarebbe quella di consentire agli oligopolisti marittimi di consolidare ulteriormente il loro potere, con tutte le controindicazioni che sono risultate evidenti, in particolare se consideriamo l’andamento dei noli marittimi dei contenitori nella fase delicata della crisi pandemica e della guerra russo-ucraina.

Se la cessione della proprietà pubblica dei porti ai privati sembra dunque una strada onestamente non consigliabile dal punto di vista della tutela dell’interesse pubblico, se intendiamo continuare a salvaguardare la concorrenza ed i beni pubblici, occorre prendere una strada differente.

Ragionamento diverso può riguardare il destino di qualche porto turistico di secondario livello, ma si tratta di ordini di grandezza che non riguardano il destino delle grande infrastrutture strategiche nazionali. Se dobbiamo invece discutere il destino futuro dei porti nazionali, al centro della attenzione deve essere posta la questione della privatizzazione della forma giuridica delle autorità di sistema portuale.

Lo vado sostenendo da tempo: la veste dell’ente pubblico non economico, adottata con la legge di riforma della riforma, è assolutamente inadeguata per governare i processi decisionali dei principali porti nazionali. E’ stato un passo indietro rispetto alla legge di riforma 84/94, che lasciava maggiori margini per una gestione a cavallo tra il diritto pubblico ed il codice civile.

Un assetto esclusivamente pubblicistico della governance nei porti rallenta non solo le decisioni sulla gestione corrente, ma anche le scelte e la operatività degli investimenti necessari per potenziare le infrastrutture portuali. L’esperienza italiana dimostra che incardinare nel codice civile le aziende pubbliche migliora la performance, come è stato nei casi delle poste e delle ferrovie italiane, che hanno migliorato sia i risultati di conto economico sia il posizionamento strategico sul mercato.

Anche per questa ragione la trasformazione delle autorità di sistema portuale in società per azioni rappresenta una condizione necessaria per mettere gli scali nazionali nella condizione di competere meglio su scala internazionale, superando un sistema di regole pubblicistiche che rappresenta oggi un freno alla migliore operatività. Si tratterà di ragionare sulla composizione dell’assetto azionario pubblico, che opportunamente dovrà coinvolgere non solo lo Stato centrale ma anche le istituzioni territoriali.

Se dunque la privatizzazione proprietaria del porti non è assolutamente una strada opportuna da percorrere, perché bisogna evitare di disperdere asset strategici per la nazione, una privatizzazione della forma giuridica, mantenendo la proprietà pubblica, può essere lo stimolo per riprendere quel percorso di modernizzazione che era stato avviato con la riforma della legge 84/94. I tempi cambiano, e richiedono architetture istituzionali differenti. Le sfide strategiche stanno mutando profondamente, ed occorre attrezzarsi per una profonda trasformazione nelle modalità di gestione delle infrastrutture logistiche.

Come sta già accadendo in Europa, dovranno essere percorse anche nel nostro Paese strade di consolidamento e di integrazione tra snodi portuali e terrestri. Proprio per questa ragione la proprietà pubblica di scali marittimi in forma di società per azioni può costituire una premessa opportuna per procedere in direzione di nuovi assetti nella gestione delle infrastrutture logistiche, senza che gli interessi collettivi siano messi in discussione in favore di una proprietà privata delle reti di connessione.

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